Credevamo che i desaparecidos fossero solo nel Cile di Pinochet e nell’Argentina di Videla, non vicino alle luminose spiagge dell’allegro divertimento di Capocabana, a Rio de Janeiro. Quella brasiliana è una tragica vicenda comunque lontana da noi, in America Latina, dove la violenza può essere feroce e lo è stata anche in tempi recenti. Ma Walter Salles (il regista di I diari della motocicletta) con il film Io sono ancora qui ci racconta una storia vera – ambientata negli anni della spietata dittatura militare – che, più che sulla denuncia, fa leva sulla capacità di affrontare la sventura, la sofferenza, la paura e che ci coinvolge profondamente.
Sì, perché la letizia e persino la leggerezza della famiglia Paiva prima, e la dignità e compostezza del dolore poi, ci tengono incollati allo schermo per tutto il tempo della proiezione. E non solo comprendiamo perché il film abbia vinto un premio al Festival di Venezia, uno ai Golden Globes e abbia collezionato tre candidature agli Oscar, ma siamo totalmente conquistati da quella madre di ben cinque figli, interpretata magnificamente dall’eccezionale attrice Fernanda Torres, nel cui contegno nobile, sereno e a tratti distaccato vorremmo identificarci per imparare il coraggio della vita, qualunque essa sia.
Salles era amico dei ragazzi Paiva, conosceva la loro grande casa accogliente e la loro gioia di vivere, ben rappresentata nella prima parte del film. Nuotate nel mare, giochi sulla spiaggia, chiacchiere e qualche innocente dispetto fra fratelli ben affiatati, riuniti attorno a una mamma e a un papà affettuosi, felici e pieni di amici. Sono le memorie dell’unico figlio maschio, Marcelo Paiva, oggi giornalista e scrittore affermato, quelle su cui si basa il regista per ricostruire la bellezza di una famiglia quasi perfetta e lo sconvolgimento improvviso che la travolge, senza molte avvisaglie.
A parte qualche sgradevole posto di blocco dei militari, che scandalizza la figlia più grande, vivacissima e un po’ hippy, o i camion dei soldati che si muovono lungo la strada che costeggia il mare, o la sagoma di un elicottero grigioverde che vola troppo basso sulle teste dei bagnanti, nessuno poteva aspettarsi quello che accade in un giorno di festa, quando incaricati del regime in borghese entrano armati in casa dei Paiva per prelevare il padre Rubens (ingegnere, ex deputato laburista) per qualche domanda. Non tornerà più, ma nessuno in quel momento poteva nemmeno immaginarlo.
Capisce la situazione forse solo la madre Eunice, che tenta di proseguire una vita apparentemente normale, senza allarmare i figli, offrendo persino il pranzo ai funzionari del Governo, che restano in casa sua dopo aver ben oscurato le finestre con le tende. Fino a quando non viene prelevata anche lei con la seconda figlia (la prima è a studiare a Londra con amici di famiglia) e portata nei corridoi dell’orrore degli interrogatori e delle torture.
Non sa nulla, ma viene trattenuta per diversi giorni in condizioni degradanti mentre la ragazza, la cui sorte la tormenta, viene rilasciata quasi subito, a sua insaputa. Finalmente Eunice torna a casa e con una doccia purificatrice vuole cancellare la violenza arbitraria del regime, che ha conosciuto in tutta la sua feroce falsità. Ma non intende rinunciare a scoprire qual è stato il destino del marito, né stravolgere la vita della sua famiglia, dopo la tragedia che l’ha investita.
Riprende in mano con decisione e autorevolezza le redini della casa, mostrando ai ragazzi la strada da seguire con compostezza, dignità e serenità, soprattuto senza spaventare i due figli più piccoli che non possono capire molto. Senza mai arrendersi di fronte alla spaventosa sparizione del marito.
Eunice accompagna i ragazzi a scuola per proteggerli, cerca di organizzare una normalità quotidiana che dia loro sicurezza, così che non perdano la speranza che il padre ritorni e non si smarriscano. “Adesso comanda la mamma”, dice perentoria. Non osano certo disobbedirle, neppure quando chiede loro di sorridere in foto, perché la vita mantenga la sua bellezza e non venga sconfitta dalla violenza subita.
Pur dispiaciuti, soprattutto la più piccola, non si ribellano persino quando sono costretti ad abbandonare la loro splendida casa e trasferirsi a San Paolo per essere aiutati dai nonni, dato che la madre non può accedere ai conti in banca senza la firma del marito. Ma la donna non si piange addosso e fa quello che ritiene giusto, tenendo stretta la sua famiglia anche quando devono rinunciare alla domestica, presenza insostituibile in casa, che comunque retribuisce correttamente fino all’ultimo. Osserva il mondo e i figli con il suo sguardo penetrante e quasi altero ma sorride, certa di poter affrontare con coraggio e dignità un nuovo futuro.
Lei che aveva tutto, soldi amore e felicità, si inventerà una nuova vita laureandosi a 48 anni, diventando una docente universitaria e portavoce delle istanze delle popolazioni native dell’Amazzonia. I ragazzi la seguono, crescono forti e sicuri proprio grazie a una madre così decisa e autorevole, qualità oggi purtroppo quasi perdute e perciò ancor più apprezzabili.
Per questo il film Io sono ancora qui ci affascina e ci commuove, perché ci dà l’idea che con una madre così impareremmo ad affrontare ogni sciagura della vita. Persino quella della crudele scomparsa di un padre amatissimo, per cui Eunice continua a lottare con determinazione, fino a ottenerne nel 1996 il certificato di morte: la memoria, anche se tragica, di ciò che è accaduto, deve essere attestata, così da testimoniare la verità per il bene del Paese. Soprattutto se si è vissuti sotto un regime che non ha rispettato la libertà e la vita, com’è accaduto nel Brasile degli anni ’70.
E anche se la vita continua, non bisogna mai dimenticare. Io sono ancora qui: il titolo del film è davvero emblematico, è la certezza di una madre che non si è arresa.
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