L’ultima telefonata con una richiesta di contatto è arrivata dall’Iran. E così si sono parlati Paul Richard Gallagher, arcivescovo segretario per i rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali della Santa Sede e Hossein Amir-Abdollahian, ministro degli Esteri iraniano. L’argomento, naturalmente, non poteva essere che il conflitto tra Israele e Hamas. E prima della chiamata da Teheran in Vaticano era arrivata anche la telefonata del presidente della Turchia Erdogan. Insomma due Paesi islamici che non hanno certo Roma e il Papa come punto di riferimento, ma che hanno cercato un interlocutore nei vertici della Chiesa cattolica. Paradossalmente hanno voluto parlare con un’istituzione che in una certa parte di mondo viene vista ancora come occidentale proprio mentre in Occidente si fa strada l’opinione che in realtà quella di Francesco sia diventata una Chiesa più terzomondista.
Al di là degli appelli a non allargare il conflitto da parte della Santa Sede e delle richieste per mitigare le conseguenze della rappresaglia israeliana sulla popolazione palestinese, il Vaticano non sembra avere la possibilità di grandi margini di mediazione in una situazione nella quale da sempre cerca di restare equidistante tra Israele e Palestina. Ma Turchia e Iran, spiega Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, si sono fatte avanti semplicemente per auto-accreditarsi come Paesi che riescono ad avere agganci in campo occidentale. Il Papa, che in queste settimane ha speso continuamente la sua parola per chiedere la pace in Medio Oriente, aveva parlato anche con il presidente Usa Biden, cattolico, con il quale ha dei punti in comune anche sulla questione palestinese. Che però la Santa Sede possa incidere sull’attività diplomatica in relazione a questo conflitto è un altro paio di maniche. Anche se i suoi sforzi per calmare la situazione continueranno.
Che posizione ha la Santa Sede sulla questione palestinese: è cambiato qualcosa nel suo approccio dopo l’esplosione della guerra Hamas-Israele?
La Santa Sede sul Medio Oriente ha una posizione molto antica, tradizionale, che è quella di parlare con tutti e di non dare l’impressione di prendere partito né per Israele né per i suoi oppositori. Non è una posizione facile e non è gradita a nessuno, perché tutti vorrebbero che il Vaticano si schierasse dalla loro parte. Bisogna tenere conto anche del tentativo di proteggere tutti i cristiani che vivono in Medio Oriente, Israele compreso. La Santa Sede ha cercato di rimanere super partes condannando le violazioni dei diritti umani.
Che reazioni hanno avuto le parole del Papa sull’attacco di Hamas?
La storia di quell’area è piena di atrocità, ma quelle di Hamas hanno passato alcuni limiti e in Occidente alcuni si aspettavano che la condanna del Papa fosse più dura del consueto, senza abbandonare la posizione del dialogo a tutto campo. Il fatto che la condanna, che pure c’è stata, non sia stata enfatica come quella che è venuta non solo dagli Usa ma anche dalla stessa Italia, ha sollevato qualche critica nei confronti del Vaticano. Anche perché tutto ciò cade, soprattutto per l’amministrazione e la stampa americana, in un momento in cui la Santa Sede è nell’occhio del ciclone, perché dà l’impressione di non condannare le atrocità della Russia in Ucraina e di non parlare mai delle atrocità cinesi perché c’è un accordo con Pechino che protegge quella parte della Chiesa cattolica cinese che lo ha accettato. Dall’altra parte dell’Oceano, insomma, c’erano già dei pregiudizi sulla Santa Sede per il comportamento con Russia e Cina e questa nuova situazione li ha un po’ confermati. La Santa sede di Francesco, a differenza di quella di Benedetto, non si schiera con l’Occidente.
Perché Erdogan e l’Iran hanno preso l’iniziativa di parlare con la Santa sede?
Un po’ come i russi nella vicenda parallela con l’Ucraina, vedono la possibilità di parlare con un’istituzione che viene percepita nel mondo come occidentale, anche se poi sappiamo che non è vero, perché è universale. Per questi Paesi è l’istituzione che è più sensibile alle loro ragioni, meno rigida nel condannare i loro amici. È chiaro che la Santa Sede parla con tutti: in questa vicenda, però, qualche cautela è necessaria proprio per il grado di atrocità di quello che è successo.
Cosa si aspettano dal Vaticano questi due Paesi?
Si rivolgono al Vaticano proprio perché si dica che hanno parlato con il Vaticano. Quello che in queste conversazioni si può ottenere concretamente è in realtà molto poco, quello che a loro interessa è che si dica che c’è un’interlocuzione, un dialogo, atteso che l’Iran in questo momento non può avere un dialogo con l’Unione Europea o con altri. È un modo per potere dire: “Vedete che anche in Occidente c’è ancora chi parla con noi”.
Ma c’è anche un riconoscimento del ruolo avuto dalla diplomazia vaticana nel conflitto tra Russia e Ucraina?
È un ruolo controverso, apprezzato solo dai russi e dai loro amici. Né gli Usa, né gli ucraini, né la Nato hanno un particolare apprezzamento per il ruolo della Santa Sede, secondo loro non sufficientemente chiaro nel distinguere l’aggressore e l’aggredito. Anche a Taiwan si ritiene che il Vaticano non dica con chiarezza che i taiwanesi hanno diritto di non considerarsi della Cina popolare. Si fa strada l’impressione che sullo scacchiere internazionale la Santa Sede non sia più parte dell’Occidente, come era certamente con Benedetto XVI, ma sia diventata un po’ terzomondista.
La diplomazia vaticana può dare un contributo alla soluzione della questione palestinese?
Secondo me no, perché tradizionalmente Israele è molto diffidente, si fida abbastanza poco della Chiesa cattolica. Soprattutto questa dirigenza. Golda Meir aveva una posizione più aperturista anche dal punto di vista del ruolo storico della Chiesa nella Seconda guerra mondiale.
Può avere degli interlocutori, invece, sul fronte palestinese?
Nelle organizzazioni palestinesi è sempre stata forte la presenza di cristiani. Non in Hamas. Ma nell’Autorità palestinese qualche cristiano c’è. La Chiesa cattolica da questa parte ha forse più autorità, ma in questo momento mi pare che le carte le dia l’Iran, che “cosmeticamente” può parlare con la Santa Sede ma alla fine fa quello che gli pare.
Teheran cosa avrà chiesto al Vaticano?
Avranno chiesto di far sentire la sua voce contro il fatto che Israele colpisca la popolazione civile di Gaza, ma il Papa lo fa anche se non glielo chiedono gli iraniani. Si trovano meno d’accordo sul fatto che altri colpiscano la popolazione civile israeliana o gli stranieri che si trovano a passare di lì. Per l’Iran però non è importante quello che si sono detti, ma poter dire che si sono parlati.
La Santa Sede che idea ha del futuro della Palestina e di Israele?
Una vecchia idea che ogni tanto si sente dire, non dal Papa ma da qualche autorità vaticana, è quella della internazionalizzazione di Gerusalemme, ipotesi che risale alla fondazione dello Stato di Israele, ma non so se sia realizzabile. Si pensa a due Stati, quello di Israele e quello palestinese, e il problema di Gerusalemme viene risolto con una sorta di statuto internazionale della città sotto l’egida delle Nazioni Unite. Peso che oggi sia una proposta ormai superata.
Il Papa ha avuto anche una telefonata con Biden sulla crisi mediorientale. E Biden è cattolico. Ha più possibilità di intendersi con lui?
Il rapporto con Biden è sicuramente migliore di quello che aveva con Trump. Hanno molte idee in comune anche sulla politica economica internazionale. Su questa questione specifica penso però che il dialogo non sia facilissimo e poi l’alleanza Usa-Israele è granitica, difficile che venga smossa dal Papa. Sul fatto che nel far valere le proprie ragioni Israele debba esercitare una moderazione e cercare per quanto possibile (che è poco) di limitare le vittime civili, Biden, in cuor suo, credo che sia perfettamente d’accordo con il Papa. Dal punto di vista morale la pensano allo stesso modo, ma da quello della realpolitik no: tirare sui capi di Hamas, che stanno in mezzo alla popolazione civile, senza fare vittime mi sembra molto difficile.
(Paolo Rossetti)
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