L’annuncio degli attacchi contro Israele serve al regime per distogliere lo sguardo dell’Occidente dalle gravissime violazioni dei diritti umani all’interno del Paese. Solo nell’ultimo anno si parla di quasi 700 esecuzioni. A dirlo è Ghazal Afshar, iraniana residente in Italia, portavoce dell’associazione dei Giovani iraniani. Anche il sostegno a Hezbollah e Houthi va visto in questo contesto: bisogna fare la guerra fuori per non doverla combattere all’interno. In Iran però, anche se in Occidente non sempre ne arriva l’eco, non si fermano le proteste contro il regime degli ayatollah. E l’ultimo episodio relativo a una donna che si è spogliata per protesta dopo che la polizia le aveva contestato un abbigliamento non consono non è che una piccola spia di un malessere più grande, che la presidenza Pezeshkian, presentato come politico moderato, non farebbe altro che coprire.
In questi giorni si è tornati a parlare di una nuova protesta da parte di una donna ripresa dalla polizia per il suo abbigliamento. La repressione del regime non si è attenuata?
Il marito della ragazza ha chiesto di non calcare troppo la mano sulla notizia per evitare di aggravare la situazione e noi come associazione abbiamo deciso di non prendere posizioni specifiche. Al di là del singolo episodio, tuttavia, il rispetto dei diritti umani in Iran sta peggiorando.
Cosa sta succedendo?
Le proteste sono all’ordine del giorno e la reazione del regime iraniano è fortissima. Da quando è iniziata la presidenza Pezeshkian ci sono state oltre 400 esecuzioni capitali, 170 solo in ottobre (+52%). Dall’inizio dell’anno sono state oltre 650.
Ma tra i giustiziati ci sono solo dissidenti o anche persone che hanno commesso reati comuni?
Ci sono pure detenuti accusati di reati comuni, ma il regime utilizza spesso motivazioni di questo tipo per giustificare esecuzioni in realtà di stampo politico: la maggior parte dei reclusi sono accusati di reati politici. Ad esempio del reato di “guerra con Dio”: il leader supremo è considerato il rappresentante in terra di Allah, dichiarare guerra al regime è come farlo a Dio.
Chi sono le persone giustiziate?
La maggior parte sono appartenenti al movimento di resistenza iraniana, dei mujahidin del popolo iraniano. Dal 2016 si è venuta a formare una rete di gruppi affiliata al movimento, definiti unità di resistenza. Il 1° novembre, per esempio, è stata resa pubblica la condanna a morte di 12 cittadini iraniani, tutti appartenenti alla resistenza, molti dei quali avevano intorno ai 30 anni.
In Occidente, però, non arrivano notizie di proteste della popolazione. Ci sono ancora oggi?
Le proteste ci sono, gli scioperi di lavoratori, medici, infermieri, studenti, sono all’ordine del giorno. La politica di accondiscendenza dei governi occidentali, in particolare di quelli che hanno sottoscritto l’accordo sul nucleare del 2015 (sconfessato solo dagli americani) porta a minimizzare i crimini di questo regime, che invece detiene il record di esecuzioni capitali pro capite.
Ma il nuovo presidente, Pezeshkian, non doveva essere un moderato? Non è cambiato niente con lui?
La sua moderazione non si è manifestata in alcun modo. Il giorno della sua investitura ha dichiarato massima fedeltà al leader supremo Khamenei e alla sua politica.
Non ci sono, quindi, vere tensioni interne al regime?
No. La morte del presidente Raisi ha creato grossi problemi. Il periodo della sua presidenza è stato quello di maggiore pressione interna e anche quello di maggiore esportazione del terrorismo fuori dai confini. Dopo di lui Khamenei cercava una persona che potesse presentarsi come moderato. Sono bastati pochi giorni di presidenza per capire che la moderazione di Pezeshkian era una falsa promessa.
Dell’Iran conosciamo soprattutto le proteste delle donne che non vogliono portare il velo. Ma oltre a questo cosa manca veramente?
C’è una mancanza di libertà e una sistematica violazione dei diritti umani, non soltanto nei confronti delle donne, verso le quali il sistema ha istituzionalizzato la misoginia: c’è anche una generazione di uomini che viene portata al patibolo.
Come si manifesta la scarsa considerazione della donna?
Il problema del velo è marginale, comunque l’Iran è un Paese musulmano, dove una percentuale di donne vuole portarlo in modo consapevole. La questione è l’obbligo forzato del velo o meno: lo scià aveva obbligato le donne a toglierlo, ma ci sono musulmane che vogliono portarlo. Ci deve essere la libera scelta. Nella Costituzione, comunque, la donna è considerata cittadino di serie B: la sua testimonianza in un processo vale la metà di quella di un uomo, per lasciare il Paese ha bisogno del permesso di un maschio della famiglia e in caso di divorzio non ha diritto di vedersi assegnati i bambini. Prima che alla madre vengono dati in affidamento al padre o ad altri uomini della famiglia.
Ma l’opposizione è in grado di offrire un’alternativa politica al regime?
Io sono dell’associazione Giovani iraniani, che fa parte del Forum dei Giovani legati al Consiglio nazionale della resistenza iraniana, un parlamento in esilio che dal 1981 raccoglie tutte le minoranze etniche, religiose, linguistiche e di cui fanno parte i mujahidin del popolo iraniano, che esiste da 60 anni. Tutto ciò dimostra che in Iran da sempre c’è una opposizione democratica ben organizzata, tra l’altro guidata da una donna musulmana, Maryam Rajavi, con un programma in cui si parla di uguaglianza di genere, separazione tra stato e chiesa, abolizione della pena di morte.
Ma c’è la possibilità concreta di scalzare il regime?
Per riuscire a realizzare il cambiamento i Paesi occidentali devono porre fine alla politica di accondiscendenza nei confronti del regime e il Corpo delle guardie della rivoluzione iraniana (Irgc) va inserito nella lista delle associazioni terroristiche. Molti Paesi europei lo hanno chiesto. Così hanno fatto la Svezia e il Regno Unito. La Germania in seguito all’arresto di un cittadino tedesco-iraniano ha chiuso i consolati ed espulso i diplomatici.
In questo contesto come viene vista nel Paese la possibilità di una guerra con Israele?
Gli iraniani sanno che il loro vero nemico è il regime, fondato sulla massima repressione del malcontento e l’esportazione del terrorismo e della politica guerrafondaia. Khomeini diceva: “Se non facciamo guerra fuori dei confini dovremo combatterla all’interno”. Per questo finanzia Hezbollah, gli Houthi, le milizie di Assad. L’Iran sostiene queste “forze per procura” per essere un interlocutore obbligato dell’Occidente e distogliere l’attenzione dalla violazione dei diritti umani. Il primo ad avere interesse a mantenere questo conflitto è il regime, proprio per evitare che si guardi a quello che sta succedendo in Iran. Se si vuole cercare di avviare un qualsiasi processo di pace, la prima cosa da fare è rompere i ponti con questo regime, per permettere alla popolazione di rovesciarlo senza appoggi esterni.
(Paolo Rossetti)
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