Vittoria scontatissima del candidato ultra conservatore Ebrahim Raisi alle elezioni presidenziali in Iran, tenendo conto che dei 592 candidati presentatisi all’inizio, solo quattro hanno ottenuto la possibilità di essere votati.
Raisi ha ottenuto circa 17,8 milioni di voti pari al 62% contro i 3,3 milioni di un altro conservatore, Mohsen Rezai, i 2,4 milioni del moderato Abdolnasser Hemmati e meno di un milione del deputato conservatore Amirhossein Hashemi-Ghazizadeh.
Il nuovo presidente iraniano ha un pessimo passato: nel 1988 fu responsabile di una repressione sanguinaria durata mesi, un atto di violenza senza precedenti nella storia iraniana. Le stime del numero delle sue esecuzioni variano da un minimo di 8mila a 30mila.
“Con Raisi non cambia granché” ci ha detto il professor Rony Hamaui, docente dell’Università Cattolica di Milano, esperto di geopolitica e di finanza islamica. “Più repressione di quanta ce ne sia già in Iran, Raisi non potrà portare. E non cambia nulla chiunque avrebbe vinto queste elezioni, perché da sempre il potere reale è nelle mani degli ayatollah: nei suoi otto anni di incarico il precedente presidente Rouhani no ha potuto fare nulla”. Un cambiamento però c’è: il minore numero di votanti della storia del paese, meno del 50%, un forte segnale da parte soprattutto dei più giovani che non credono più in un regime monolitico senza alternative.
Di quasi 600 candidati sono passati al vaglio del regime solo quattro persone. La vittoria di Raisi era scontata?
Assolutamente sì. Ovviamente per nessuna donna è stato possibile candidarsi, come sempre.
C’è stato però un forte astensionismo, ha un significato politico?
Sì, ha votato quasi la metà in meno della volta precedente, il 48% contro il 73%. È un segnale, come si suol dire ogni tanto si vota con i piedi quando non si può votare con la testa. Non vai alle urne se sai che non hai alternative. Oggi tutte le strutture cruciali dell’Iran sono in mano alla parte più conservatrice, questo non succedeva da tempo, le fila sono state serrate più forti che mai.
Questo inasprimento secondo lei è motivato maggiormente da motivi interni o internazionali?
Sicuramente ci sono motivi interni, perché l’Iran sta soffrendo una situazione molto complicata per la pandemia e le sanzioni, ma siamo anche alla vigilia della riapertura del dialogo sul nucleare. Il regime non voleva correre il rischio di non poter controllare tutto il processo, ammesso che un moderato avrebbe potuto farlo.
Ma non è peggio per il dialogo vedere alla guida dell’Iran un ultraconservatore?
Credo che alla fine faccia davvero poca differenza, non è che Rohani sia stato un rivoluzionario. Nessun presidente ha un potere reale, che è saldamente nelle mani degli ayatollah. Rouhani, va detto, è stato anche sfortunato che ci fosse Trump alla presidenza Usa, un personaggio con cui era oggettivamente difficile dialogare. Se pensiamo a quello che sta succedendo in Arabia Saudita negli ultimi anni e pensiamo all’Iran ci rendiamo conto della differenza.
Cosa intende?
In Arabia c’è stata una vera svolta anche se in occidente non ce ne rendiamo conto. Le libertà sono molto aumentate, mentre nel contrappeso sciita che è l’Iran invece si è tornati indietro. La differente velocità di modernizzazione della società in Iran non c’è stata. Non mi straccerei i capelli a sapere chi ha vinto, non fa una grandissima differenza.
Però Raisi ha fama di essere un sanguinario repressore: peggiorerà ancora la situazione in Iran?
Più repressione di quanta già ce ne sia non so come sia possibile, è vero che non c’è limite al peggio però la verità è che questo paese è così da anni e non si vede alcun possibile cambiamento. Cito ancora l’Arabia Saudita come esempio più macroscopico di svolta. La religione è stata sostituita dal nazionalismo, c’è stato un cambiamento molto forte nel regime per le donne, per le libertà individuali.
L’Iran però è un paese politicamente accerchiato.
L’accerchiamento l’Iran se lo è cercato ed è ben contento di averlo. Si è guadagnato tutti gli spazi immaginabili in Iraq, in Siria, a Gaza, in Libano, ha esteso di molto la sua area di influenza. L’obiettivo di Teheran resta essenzialmente un obiettivo teocratico, rimane un grande paese molto forte dal punto di vista militare, hanno una tecnologia molta avanzata in molti campi e oggi hanno alle spalle anche la Cina.
Infatti, è stato firmato un accordo ultradecennale di collaborazione. Questo significa che l’occidente si è giocato l’Iran una volta per tutte?
Una volta per tutte non lo so, ma la Cina con il suo solito pragmatismo ne ha approfittato, si sono infilati dove c’era spazio, i cinesi sono molto poco ideologici. Per l’Iran questo accordo rappresenta una sorta di nuova frontiera marittima, possono scambiare beni, servizi, tecnologia.
Comunque anche con questo presidente ultra-conservatore il dialogo sul nucleare secondo lei proseguirà?
Credo proprio di sì, Biden ha interesse in qualche modo a chiudere un accordo se non altro per bloccare i loro progressi degli armamenti nucleari. Il nuovo presidente non influenzerà moltissimo la trattativa.
(Paolo Vites)
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