Nel maggio del 2018, Donald Trump, durante il suo primo mandato presidenziale, annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA), raggiunto dai Paesi P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) nel luglio 2015 ed entrato in vigore nel gennaio 2016. Nel contempo, la Casa Bianca annunciò anche la reintroduzione delle sanzioni economiche USA sospese dal 2016. Tutto questo in contrasto con le politiche della UE, che invece intendeva proseguire nell’accordo ritenendolo fondamentale per la non proliferazione delle armi nucleari.
Venendo ad oggi, da un paio di settimane, nel panorama internazionale tiene banco l’interesse che l’amministrazione USA sta dedicando al dossier iraniano, dopo che lo stesso Trump aveva affermato di voler imprimere massima pressione sull’Iran per debellare il suo programma nucleare.
Sul piano politico, va ricordato che la Repubblica Islamica affermava di poter controllare quattro capitali arabe: Beirut, Damasco, Baghdad e Sanaa, e che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha già provveduto a farne uscire due dall’orbita iraniana, Beirut e Damasco, con la collaborazione del blocco arabo sunnita, principalmente dell’Arabia Saudita.
Nelle ultime due settimane, Trump ha posto le basi per escludere la terza capitale, Baghdad, sponsorizzando il suo rientro nel commercio petrolifero mondiale fuori dall’alveo iraniano, al riparo dalle sanzioni e mettendo in chiaro l’esportazione verso la Turchia.
Dopo una lettera-fantasma che dalla Casa Bianca è giunta a Teheran, e che proponeva il riavvio di negoziati sul nucleare; dopo che il moderato vicepresidente con delega agli affari strategici Mohammad Javad Zarif, lo stesso che aveva condotto il precedente accordo sul nucleare iraniano nel 2015, si è dimesso.
Dopo che anche la guida suprema Ali Khamenei ha prima smentito la ricezione della lettera e poi l’ha definita un inganno internazionale, venerdì scorso, mentre Putin era impegnato in un incontro con l’emissario degli USA Steve Witkoff per discutere la possibile fine della guerra in Ucraina, i viceministri degli Esteri iraniano, russo e cinese si sono incontrati a Pechino per consultarsi sulla questione del nucleare iraniano.
La riunione ha partorito un comunicato in cui i tre partecipanti deploravano l’aggravio delle sanzioni USA verso l’Iran e rivendicavano per la Repubblica Islamica lo sviluppo del nucleare per usi civili.
L’effetto del comunicato è stato che gli USA hanno rivolto la loro attenzione alla quarta capitale satellite e hanno bombardato violentemente i proxy Houthi dell’Iran e la loro capitale, Sanaa. Inoltre, ieri, sul social Truth, Trump ha postato di aver notato una diminuzione delle forniture di armi agli Houthi, ma che continuerà i bombardamenti sullo Yemen fino a cessazione degli aiuti iraniani, senza causare nessuna reazione né da Mosca né da Pechino.
In questo caso è chiaro che il bersaglio primario non è il nucleare iraniano. L’obiettivo americano fin dall’inizio erano gli Houthi, vera spina nel fianco del commercio e del dominio marittimo mondiale degli USA, con l’aggravio dei costi che i loro attacchi alle navi nel Mar Rosso impongono per l’attraversamento del collo di bottiglia più importante del mondo, aumento che Shipping Italy valuta nella percentuale del 400%.
Prima di agire contro gli yemeniti, gli USA hanno pubblicizzato la richiesta di negoziati sul nucleare ed hanno atteso la risposta dei concorrenti.
Cina e Russia hanno praticamente boicottato l’Iran, relegandolo in un incontro a livello sub-ministeriale di qualche ora, mentre Putin era impegnato a confrontarsi con l’inviato USA per una possibile pace in Ucraina.
Anche il comunicato finale dell’incontro non è stato emesso a livello di vertice, e ci dice che per Russia e Cina l’Iran non è un alleato per il quale rischiare un vicino, e molto probabile, equilibrio multipolare con gli USA. In fondo, anche gli Houthi non hanno un gran valore, anzi sono scomodi pure per la Cina, e con la pace anche il petrolio saudita sarà a buon mercato.
Teheran, a questo punto, dovrà scegliere se abbandonare lo Yemen e rinunciare definitivamente a proiettare la sua influenza geopolitica nell’area del Golfo Persico, dimenticando ogni mira espansionistica in cambio di un allentamento delle sanzioni, o rischiare un’ulteriore involuzione del regime verso una fine che sarebbe preannunciata, anche se non dietro l’angolo.
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