C’è voluto che calasse una volta per tutte il sipario perché si riaccendessero invece i riflettori su Irene Fargo. Tutti insieme, come ai tempi migliori della sua carriera, dei primi Festival di Sanremo targati ormai più di trent’anni orsono. Perché l’italiano è un tipo solitamente famoso per accorgersi sempre del valore di ciò che aveva solo dopo averlo irrimediabilmente perso.



Voce regina della nostra canzone, dopo una partenza col botto grazie all’intuito e la lungimiranza di Pippo Baudo che la portò alla ribalta nazionale sul palco dell’Ariston e apparizioni televisive ovunque, ha intrapreso una parabola progressivamente discendente per colpa della cecità di case discografiche e addetti ai lavori incapaci nel valorizzarne il talento (spesso perché incapaci e senza titoli, messi lì non si sa bene da chi né perché). Nel comprenderlo ed esaltarlo a dovere, uccidendone di fatto il prosieguo di un percorso artistico che aveva tutte le carte in regola per sbancare il banco.



In suo aiuto solo gente del livello dell’indimenticato e valente Paolo Limiti (che l’ha sempre voluta accanto a sé in tutte le sue trasmissioni amarcord sulle reti Rai), Lucio Dalla, Gigi D’Alessio, Niccolò Agliardi e in particolare Renato Zero a darle ancora spazi importanti, ma pur sempre oggettivamente insufficienti senza il supporto adeguato di una major del disco degna di questo nome.

All’estero avrebbero pagato a peso d’oro un’artista sovraffina e un’interprete inarrivabile di così gran valore e caratura, impreziositi entrambi da un animo candido e gentile, nobile e virtuosamente altruista e cortese. Irene Fargo al pari di Giuni Russo e Pino Mango, anche loro mai debitamente celebrati.



Con quelle corde vocali di platino in esemplare unico avrebbe potuto essere la Andrea Bocelli al femminile (avendo debuttato ben tre anni prima di lui a Sanremo), la Lara Fabian o la Sarah Brightman italiana con vendite internazionali da capogiro e concerti ovunque sold-out. Ma così non è stato, purtroppo. Qui invece, nel vecchio stivale malconcio e completamente da risuolare, corriamo dietro, inebetiti come pecore impazzite, ai ragazzini dei talent. Ai giovinotti tatuati, ingioiellati e impellicciati e per nulla gentili ed educati che, al posto di cantare, ragliano blaterando “a tempo di musica” – volutamente fra virgolette – fiumi di parole sconce, e per lo più sconclusionate.

Perché la Bellezza, la Qualità sono cose rare. Sempre più per pochi in questo Paese dilaniato dalla politica asfittica e assente. Preda di un rigurgito diffuso che fa rima con rap e trap. Musicaccia, senza dubbio. Anzi, puro rumore di fondo rispetto all’etereità e alla potenza di un timbro affascinante e delicato insieme quale quello di Flavia Pozzaglio, che i molti hanno scoperto soltanto oggi essere il nome di battesimo e la corretta dizione anagrafica di Irene Fargo solo perché attratti per lo più dalla curiosità sterile di sapere chi fosse. 

Lei, che con il suo total look finemente elegante e d’impatto con quegli occhialoni neri precorse quasi vent’anni prima i tempi di Arisa, grazie alla produzione sapiente di Enzo Miceli. Troppo tardi. Troppo. Ai molti giornalisti di showbusiness e altrettanto presunti critici musicali che appestano in misura eccentrica, ricorrente e spesso fuori luogo web e carta stampata, salotti e programmi radio-tv domando fermamente, in coscienza loro, ammesso che ce l’abbiano, per quale motivo, in tutti questi anni, hanno evitato di dare spazio alla straordinaria artista bresciana. Perché allora hanno taciuto, e fino a ieri uguale? 

Mentre ora me li ritrovo tutti allineati, e pronti a rubare in rete qui e là visualizzazioni e click facendo leva sulla notizia della sua scomparsa. Rilanciando in rete aggiornamenti solo per risalire qualche sporadica posizione nei risultati di Google News e squallidi aggregatori di notizie fatti per rilanciare qualche fastidioso banner di pubblicità in più. Roba da poveri. Per non dire da poveracci. Che tristezza…

Rap e trap sono vizi da populisti, figli degeneri di un nullafaccendismo di Stato che dà persino diritto a un reddito. Mentre i grandi artisti passano, muoiono, e di loro resta solo il profumo di note sempiterne per sempre regalate e relegate nel cuore di chi ha ancora della carne viva al posto della dura pietra, tanto per citare il Vangelo, il Libro migliore che conosco.

Le parole più vere e intense a Irene Fargo, all’adorata amica e indiscutibilmente stella della canzone Flavia, le hanno commossamente rivolte e riservate come sempre i grandi Big. Quelli con la B Maiuscola. Quelli veri. Eterni già quaggiù come il già citato Renato Zero, Laura Pausini, la mitica Mara Venier, Silvia Mezzanotte voce strepitosa dei Matia Bazar dei tempi d’oro insieme ad Antonella Ruggiero, l’ex Pooh Roby Facchinetti e Fausto Leali, tanto per citarne alcuni.

E ora, a distanza di pochi giorni, il triste fenomeno si ripete: volato via anche Tonino Cripezzi, voce e anima con Livio Macchia dei sempre gloriosi Camaleonti, ecco tutto il web letteralmente inondato, allagato, alluvionato di notizie. Splendide le parole affettuosamente pronunciate in sua memoria da Fiordaliso.

Ma per quale strano motivo quando li abbiamo ancora fra noi, gli artisti, li ignoriamo, li dimentichiamo? E poi acclamiamo invece alla loro scomparsa quasi fossimo stati loro amici sino all’ultimo, persino falsamente commuovendoci e battendoci persino il petto dal dolore?

Questa è la vergogna sovrana che aleggia e serpeggia nella stampa musicale italiana, e che ha fatto sì che mi allontanassi definitivamente da questo sporco e falso mondo per dedicarmi ad attività ben più sincere e costruttive insieme. Nella vita, e nel lavoro. Decisamente più utili al prossimo, e in linea con il mio sentire interiore sempre in cerca in tutto di un comune candore.

Facciamoci una domanda, e diamoci una risposta. Seguiamo, per una volta, il metodo di Gigi Marzullo. La verità è che siamo degli scemi. Dei precari malati di inguaribile superficialità, noi italiani. Sempre inclini a strisciare con la lingua di fuori dietro a un vento delle mode che sa più di puzzetta, che di profumo.

Ciao, Flavia, arrivederci Tonino. Mentre scrivo dentro me risuona ancora il vostro concerto: solo voce e pianoforte, come solo due immortali giganti di razza sanno fare. 

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