“Per ogni nefandezza, per ogni sciagurata inadempienza, per ogni palese incapacità, abbiamo da contrapporre e da raccontare, lo sforzo e l’entusiasmo, la capacità e la dedizione, il coraggio dei giovani volontari”.
Cominciavo con queste parole sofferte, 40 anni fa, a raccontare l’epopea dei giovani volontari che da ogni angolo del Paese raggiunsero in poche ore l’Alta Irpinia e la Basilicata, le zone flagellate dal terremoto del 23 novembre 1980. Il diario fu pubblicato in un opuscolo intitolato L’Italia che resiste, pieno di bellissime foto di Tano D’Amico, ritrovato quasi per caso.
All’epoca ero un giovane dirigente della Fgci, la federazione giovanile comunista, quella domenica sera ero venuto a Napoli per trovare la mia famiglia e alle 19.35 ero in auto diretto a un cinema. Feci appena in tempo a ritornare verso casa che la città – riversatasi tutta in strada – si bloccò completamente. Dopo essermi accertato che i miei erano sani e salvi, mi diressi verso la sede del Partito.
In quelle ore non si capiva nulla di cosa era in effetti successo nelle zone più interne. A Napoli era crollato un palazzo a Stadera, si capiva che il vecchio e misero patrimonio immobiliare cittadino era molto danneggiato, ma il numero delle vittime sembrava assai contenuto. Negli uffici trovammo Antonio Bassolino – all’epoca era il segretario regionale – che cercava di mettere insieme le poche notizie raccolte dall’Unità e da qualche telefonata a malapena ascoltata. In particolare non si avevano più notizie di un’assemblea di partito che doveva essere ancora in corso a Caposele. Non restava quindi che andare a vedere di persona.
Partimmo – Luigi Izzi ed io – su una piccola Mini Minor alla volte di Lioni. Dopo pochi chilometri da Avellino trovammo la strada interrotta. Allora pensammo di aggirare l’ostacolo, quello che poi scoprimmo essere il “cratere”, passando per Salerno e risalendo la valle dell’Irno. Così verso le 23 arrivammo a Calabritto. Nel buio pesto e tra i lamenti soffocanti di centinaia di voci sofferenti, capimmo che il paese non c’era più. Camminavamo nella direzione opposta alla fila delle persone che scappavano dalle macerie. Raccogliemmo solo poche parole, non servivano, il resto era davanti ai nostri occhi. Decidemmo di provare a raggiungere la vicina Caposele. Anche lì il paese non c’era più, e non c’era più neanche la sede del partito. L’assemblea degli iscritti era stata completamente risucchiata sotto l’edificio crollato.
Tornati a Napoli per dare le prime notizie di quello che avevamo visto ci chiedemmo cosa potevamo fare. Serviva tutto: chi poteva scavare tra le macerie, chi poteva dare a chi si era salvato un pasto, un posto asciutto, una coperta. All’epoca non era facile comunicare, non era come oggi, solo telefonare e trovare la persona accanto ad un telefono era una fortuna. Eppure ricordo che in poche ore decidemmo di mobilitare – all’epoca si diceva così – tutto quello che era possibile mobilitare. Si decise di chiamare i giovani di tutta Italia a venire qui a dare una mano.
“Il Cong – centro operativo nazionale unitario – ha organizzato l’invio di più di 8.000 volontari. Almeno altri 5.000 sono arrivati nelle zone terremotate con mezzi propri. (..) Si è trattato di un vero e proprio sussulto di massa che ha coinvolto la parte migliore e più consapevole della gioventù italiana”.
Come era già successo nel 1966 per salvare Firenze dopo l’alluvione, la parte più sensibile del Paese reagì immediatamente, spontaneamente, per solidarietà pura e semplice. All’epoca mi sembrò chiaro che tutto ciò era la risposta a quanto di orribile eravamo costretti a vedere, alle inefficienze dello Stato, ai ritardi imperdonabili, alla scelta di minimizzare della Dc e del suo governo, che pure in quelle zone godeva di un consenso enorme.
Da quel momento non tornai più a casa per circa due mesi. Mi accampai nella sede del partito di Avellino, alquanto mal messa. C’era da coordinare gli arrivi, smistare le squadre nei comuni più colpiti, organizzare la logistica degli aiuti alimentari che cominciavano ad arrivare, sbrogliare le prime grane tra volontari e autorità locali.
La prima squadra di 120 volontari arrivò il 26 alle 5 del mattino, da Milano. Molti di quelli che incontrai al casello di Avellino Est sono ancora oggi tra i miei migliori amici. Avevano viaggiato per 17 ore senza soste, avevano sbagliato strada. Avevo ancora negli occhi le scene viste a Calabritto e decidemmo di aprire lì il primo campo.
“L’impatto con il terremoto è duro. Appena messo piede a terra sono accolti da due leggere ma percettibili scosse di assestamento. Non finiranno di montare le tende perché vengono subito chiamati dalle autorità del posto per aiutare a sgomberare le macerie. Ci vanno con picconi e pale in spalla, con gli elmetti nuovi e le mascherine pagate dal Comune di Milano”.
I volontari non sempre sanno a che cosa vanno incontro. Nel racconto di 40 anni fa ritrovo la storia di un gruppo di ragazzi arrivati da Torre del Greco.
“La squadra di Torre del Greco, composta da circa 40 persone, è una delle prime ad arrivare ad Avellino città. Non essendo però in possesso di un proprio mezzo di trasporto è costretta ad aspettare una intera giornata senza potersi muovere. Ritorneranno il giorno dopo con un pullman reperito alla meno peggio. Senza tende, senza cibo, senza attrezzature, vengono aggiunti alle squadre di Milano a Calabritto. Non possono essere utilizzati per lavori fondamentali e vengono impiegati nella cucina e nella pulizia del campo”.
Ma i giovani di Torre del Greco non si perdono d’animo. Ritornano dopo due giorni con un pullman nuovo e attrezzature raccolte grazie al contributo di tutta la città. Hanno fatto esperienza e sono destinati a Calitri, uno dei comuni più colpiti. Ma non finiscono gli imprevisti:
“Calitri è a 80 km e l’autista si rifiuta di partire di sera. Aspetteranno tutta la notte nel pullman parcheggiato in piazza Macello. Quando finalmente sono arrivati a Calitri hanno trovato il modo di farsi valere”.
Per più di un mese i volontari fanno quello che nessuno aveva pensato di fare. Oggi è facile immaginare il ruolo della Protezione civile, ma all’epoca non c’era nulla che le assimigliasse. Riprendo il resoconto di 40 anni fa per ricordare che “alla fine di dicembre i campi dei volontari ancora in funzione sono ben 24”.
I campi sono diventati nelle settimane successive qualcosa di importante, promuovono la solidarietà per le famiglie senza casa, organizzano le scuole popolari e gli asili. In alcuni realtà sono così autorevoli che assegnano le prime roulotte. Nascono in quei giorni addirittura due cooperative tra i giovani disoccupati del posto. La prima a Lioni, tra 15 ragazzi che firmeranno per primi l’appello a Pertini per un “Capodanno di speranza”, la grande fiaccolata con migliaia di persone che si terrà poi la sera del 1° gennaio del 1981. La seconda a San Mango, grazie ai volontari abruzzesi giunti lì, di decine di giovani professionalizzati che lavoreranno per anni alla ricostruzione. Nella nota ricordo “i volontari di Padova organizzati da Radio Gamma 5” a cui fu affidato il deposito di aiuti di Baiano. È ancora “le squadre di Catania a Santomenna e a Laviano, i giovani emiliani e pugliesi a Baragliano, a Bella, a Muro Lucano, i volontari di Roma a Valva, a Caposele, a Nocera Inferiore, i giovani di Perugia a San Gregorio Magno, le squadre del Veneto a Teora e a Calitri, a Rionero, a San Mango”. Per i giovani volontari delle Marche invece la permanenza a Nocera significò la conoscenza della camorra. Furono addirittura presi d’assalto nel deposito dove conservavano gli aiuti raccolti da mezz’Italia.
La mobilitazione era stata unitaria. Accanto all’organizzazione giovanile comunista erano scese in azione compatte tutte le organizzazione cattoliche. Dall’Agesci alle Acli, da “Mani Tese” alla Fuci, dall’Opus Dei ai Focolari, dall’Azione Cattolica alla Fidae, dalle Comunità cristiana di base al Movimento Popolare e a Comunione e Liberazione. Nell’opuscolo ho ritrovato anche una bella lettera di don Giussani che si domanda “noi non possiamo limitarci a discutere a chi tocca aiutare questa gente. È evidente che tocca a ciascuno di noi muoversi”. E poi cita un contadino di Lioni, uno dei comuni in cui i soccorsi sono arrivati dopo giorni, che ha detto “ma esiste poi Lioni per lo Stato, per gli uomini che vivono tranquilli nelle loro comode case? No, Lioni esiste solo nel cuore di Cristo”. Don Giussani invita i giovani cattolici a muoversi per cogliere “l’occasione per incontrare la storia sofferente e la mentalità cristiana del popolo del Sud, per imparare da essa, per aiutarla e difenderla”.
Negli anni successivi la storia prese una piega diversa. Per la ricostruzione furono spesi in 20 anni oltre 51mila miliardi di lire (26 miliardi di euro) con pochi risultati e molte polemiche, inchieste, insuccessi.
In epoca di Recovery Fund un bell’esempio da tenere in mente. Errori da non ripetere, illusioni da non alimentare.
Quello che mi preme sottolineare è l’abbandono che dopo decenni ha condannato queste zone alla solitudine. Sorte toccata in comune a tante altre zone del nostro Appennino centro-meridionale, ugualmente segnate da terremoti, crolli, ricostruzioni mai concluse. Zone belle e difficili, ricche di tradizioni e di cultura, luoghi lontani e magici. Che potremmo ripopolare, scegliere oggi come luoghi di lavoro a distanza, per creare insediamenti sostenibili, vite ragionevolmente tranquille. Senza farci scoraggiare dagli insuccessi.
Uso a questo proposito le parole di Franco Arminio, il poeta avellinese che in questi anni ha deciso di dedicare il suo lavoro al racconto di questi luoghi. In La cura dello sguardo così parla della sua terra, l’Irpinia:
“In questi anni gli scoraggiatori hanno avuto conferma delle loro teorie. Le fabbriche costruite dopo il terremoto sono quasi tutte chiuse. I centri storici sono vuoti o abitati solo da vecchi. La classe dirigente, unico caso nell’Occidente, è ancora in parte quella degli anni sessanta del secolo scorso. C’è De Mita con i suoi sindaci fedeli e c’è il paesaggio. Io sto con il paesaggio”.