C’è libertà di culto, ma non si possono fare proseliti, anche se il dialogo con le altre religioni, non solo quella islamica, è ben visto e in alcuni casi favorito. La comunità cattolica di Emirati Arabi, Oman e Yemen, un milione di persone quasi tutte immigrate, vive comunque situazioni diverse: di sostanziale accoglienza nei primi due Paesi, anche se sempre con le limitazioni dovute al contesto musulmano; di difficoltà, invece, nel territorio yemenita, dove i cattolici sono rappresentati da due comunità di Madre Teresa di Calcutta.
Una situazione, spiega Paolo Martinelli, vescovo che dal 2022 è vicario apostolico per l’Arabia Meridionale (oggi al Meeting) che autorizza a sperare in uno sviluppo del dialogo, basato sulla reciproca conoscenza. Un segnale importante in un’area come quella del Medio Oriente, dove il dato saliente sono proprio i conflitti nati da quello fra Israele e Hamas.
Come si vive da cattolici in Paesi come Emirati Arabi, Oman e Yemen?
Dipende dai Paesi. Negli Emirati Arabi, di per sé, c’è libertà di culto; possiamo professare la nostra fede. Viviamo anche l’esperienza della Abrahamic Family House, dove nello stesso compound ci sono una chiesa cattolica, una sinagoga e una moschea. C’è un’atmosfera serena, ospitale, anche il catechismo è ben organizzato. Ovviamente non si può avere alcun atteggiamento di tipo proselitistico, la conversione dall’islam non è consentita, ma questa è una situazione di lunga data. Non abbiamo problemi però a vivere la nostra fede. Qui, d’altra parte, il numero di migranti è altissimo, con persone che appartengono anche ad altre religioni, come l’induismo.
Nell’Oman e nello Yemen la situazione non cambia?
Anche nell’Oman c’è libertà di culto, senza la possibilità di conversione, mentre i problemi ci sono nello Yemen, dove siamo in una situazione di conflitto. Una volta c’erano molti cattolici, poi gradatamente diminuiti fino ad arrivare a un gruppo molto piccolo di fedeli. Alcuni cittadini yemeniti, comunque, sono di tradizione cattolica. Lì siamo presenti solo con due comunità di Madre Teresa di Calcutta, al Nord, che fanno un lavoro davvero ammirabile dal punto di vista della carità. Sono autorizzate a celebrare la Messa nel loro compound, anche se il numero di cattolici è ormai ridotto. In futuro, quando finiranno i conflitti, speriamo di poter riprendere anche la presenza istituzionale della Chiesa.
Come mai i cattolici sono diminuiti?
Durante il lungo periodo del Protettorato Britannico (1868-1967), quando lo Yemen era un’economia fiorente, la presenza dei cristiani era abbastanza consistente; poi, con l’insediarsi di regimi nazionalisti e arabisti, per i cristiani sono iniziate le discriminazioni. Alcuni si sono convertiti. I lavoratori immigrati, che hanno sempre costituito la maggior parte della comunità cristiana, hanno iniziato a lasciare il Paese. Quando nel 2015 è iniziata la guerra civile, che dura tuttora, chi ha potuto se n’è andato. Non c’era più lavoro e il territorio era in balia di gruppi più radicali. Le stesse suore di Madre Teresa, all’inizio della guerra civile, nel 2016, hanno subito un attacco e quattro di loro sono state uccise.
Le comunità cristiane si stanno assottigliando in diversi Paesi del Medio Oriente, Siria e Iraq ad esempio. C’è bisogno di una rinascita?
Per motivi diversi, oggi sono meno numerose: la situazione è molto complessa. Anche in Libano è tale per cui molti lasciano il Paese. È chiaro comunque che c’è una sofferenza delle comunità cristiane.
Oltre il livello istituzionale, che tipo di rapporti si instaurano con la gente del posto?
Negli Emirati la situazione è molto buona, anche perché dalle autorità governative il tema del dialogo tra fedi diverse è visto positivamente. Io stesso ho relazioni con musulmani, induisti e anche con persone di religione sikh: abbiamo molti contatti e spesso organizziamo insieme dei momenti di confronto. C’è un buon rapporto. Sono stato invitato quando hanno aperto il nuovo Mandir, il tempio indù, vicino ad Abu Dhabi, e mi hanno chiesto di tenere una relazione sulla visione cristiana dell’armonia, mentre il tempio sikh mi ha invitato a presenziare a un incontro interreligioso. È un dato culturale abbastanza assodato. Capita anche di incontrarsi a livello informale, di amicizia. Pure nell’Oman ci sono buone relazioni, anche se non una promozione diretta dei rapporti fra religioni diverse.
Qualcosa si muove, insomma, sul piano della reciprocità?
Direi di sì. La tradizione degli Emirati Arabi è comunque quella di un Paese di tolleranza e coesistenza, anche perché il 90% degli abitanti viene dall’estero, sono migranti e quindi sono portatori di culture e religioni diverse. Un dato positivo che costituisce la particolarità di questo territorio.
Anche la comunità cattolica, quindi, è composta da immigrati?
Tutti i cattolici sono immigrati. Siamo una Chiesa di migranti. Abbiamo circa un milione di fedeli nei tre Paesi. Vengono da circa cento nazioni diverse, la maggior parte sono filippini e indiani. I cittadini emiratini cattolici sono pochissimi; in genere si tratta di persone che sono qui da molti anni e che, in virtù di servizi prestati alla nazione, hanno ricevuto la cittadinanza. La politica degli Emirati non prevede di per sé il passaggio alla cittadinanza, si favorisce l’accoglienza, però si rimane migranti.
Qual è l’approccio in questi Paesi alla crisi che il Medio Oriente sta vivendo in questo momento, alla guerra a Gaza e alla questione palestinese?
Eccetto lo Yemen, dove gli Houthi sono direttamente coinvolti per il disturbo che creano alle navi nel Mar Rosso e per questo tentativo di introdursi nel conflitto fra Israele e Hamas, gli altri Paesi riportano le notizie, lavorano per la pacificazione, senza che ci sia un coinvolgimento diretto. In Oman e negli Emirati Arabi c’è un atteggiamento di grande prudenza, si lavora per superare i conflitti, ma non si prende posizione. Hanno fatto pervenire aiuti economici anche per curare i bambini colpiti nella guerra e sono preoccupati anche perché una crisi così nel Medio Oriente può essere un pericolo per tutti.
Emirati e Oman, comunque, hanno rapporti economici (e di altro tipo) molto stretti con gli occidentali.
Assolutamente sì. Hanno rapporti con moltissimi altri Paesi, sono molto aperti dal punto di vista delle relazioni culturali ed economiche: la loro è una politica di pacificazione, non di conflitto. C’è una tradizione di ospitalità e coesistenza delle differenze.
Quindi, il dialogo con il mondo islamico è possibile? Che strada bisogna percorrere per portarlo a compimento?
Le speranze ci sono. In questo contesto, sottolineerei le cose buone che sono già state fatte insieme. L’esperienza che facciamo in Oman e negli Emirati è l’immagine di una relazione possibile, approfondita, non solo formale. In seguito alla visita di Papa Francesco negli Emirati Arabi cinque anni fa, è stato firmato il famoso documento sulla fraternità umana, da cui è nata anche l’esperienza della Abrahamic Family House. Tutti segni che vanno nel senso di un cammino comune. Il dialogo è possibile e già in atto. Favorire la conoscenza reale permette anche di superare gli stereotipi.
(Paolo Rossetti)
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