Musulmani 2 – Sebastian Kurz 0. Potremmo sintetizzare così, con una metafora calcistica, il significato della sentenza con cui la Corte Costituzionale austriaca ha bocciato il divieto di indossare il velo islamico nelle scuole elementari approvato il 16 maggio 2019, all’epoca in cui i popolari di Sebastian Kurz erano al governo con l’ultradestra del Partito della Libertà guidato da Heinz Christian Strache. Il risultato, come abbiamo detto, è 2-0 e non 1-0. Infatti Kurz, oggi alla guida di una coalizione con i verdi, aveva concordato con il nuovo partner di governo di estendere il bando fino all’età di 14 anni.



Questo è l’epilogo di una legge che aveva trasformato l’Austria nel quarto paese europeo che proibisce alle bambine di religione islamica di indossare a scuola l’hijab. Una legge che fu presentata con grande enfasi dal governo del tempo, che volle ravvisarvi “un segnale contro l’islam politico” nonché uno sforzo per “liberare le bambine dalla sottomissione”.



Puntando sui minori, il duo Kurz-Strache si poneva in ideale continuità con l’esecutivo precedente che aveva introdotto un bando generalizzato al velo integrale negli spazi pubblici negando nel contempo a poliziotti, giudici e magistrati il diritto di indossare l’hijab. Quando prese avvio la campagna elettorale del 2018, Kurz promise, in piena sintonia con il partito di Strache, di proseguire la battaglia contro l’islam politico con l’obiettivo di evitare “lo sviluppo di società parallele in Austria”. A tal fine, una volta entrato in carica, meditava di introdurre, oltre che il divieto in questione, un analogo bando al velo per la scuola dell’infanzia, mossa che però gli era preclusa dal fatto che tali istituti sono gestiti dalle province e ogni intervento nella loro gestione avrebbe richiesto una modifica costituzionale.



Il campo rimaneva aperto invece per le bambine che frequentano le scuole elementari, diventate oggetto della legge approvata poco prima che Strache uscisse di scena per il noto scandalo degli affari clandestini con i russi. Naturalmente si trattava di trovare la formulazione adatta per evitare di incorrere in violazioni plateali della Costituzione. La soluzione scelta fu di redigere un testo che faceva riferimento a “indumenti ideologicamente o religiosamente influenzati che sono associati con la copertura del capo”. Ma che la legge fosse mirata al solo velo islamico lo confermò proprio il governo, dichiarando che essa non sarebbe stata estesa al patka indossato dai ragazzi Sikh o alla kippah ebraica. Che ci fossero potenziali vizi di legittimità, era ben presente allo stesso Kurz, il quale dopo l’approvazione del provvedimento ammise che sarebbe stato molto probabile un ricorso alla Corte Costituzionale.

Con quei criptici ma chiari riferimenti al velo islamico la legge austriaca si differenziava molto dall’analogo bando introdotto nel 2004 in Francia che proibisce l’ostentazione nelle scuole dei simboli di qualsiasi religione. Quella di Kurz e Strache, insomma, era una crociata bella e buona che, giocando sul simbolismo del velo, cercava di accreditare l’idea che tra i 700mila musulmani austriaci si annidassero frange radicali che mettono a repentaglio le libertà costituzionalmente garantite. E il fatto che le famiglie obbligassero bambine con meno di dieci anni a indossare il velo era ritenuto, nell’ottica del legislatore, un chiaro indicatore di coercizione e al tempo stesso di estremismo.

Ma, come abbiamo visto, il calcolo di Kurz e soci si è rivelato sbagliato: è bastato un ricorso presentato da due famiglie islamiche per spingere la Corte Costituzionale a bocciare sonoramente il bando. Le motivazioni addotte sono molteplici, a cominciare dal fatto che la legge è chiaramente indirizzata a una specifica religione e quindi viola il principio della neutralità dello Stato nei confronti di tutte le confessioni. La legge, in pratica, per la suprema Corte costituiva una grossolana violazione della libertà religiosa.

La seconda obiezione avanzata dalla Corte è riassunta nelle parole del suo presidente Christoph Grabenwarter, secondo il quale “il bando selettivo … si applica esclusivamente alle bambine musulmane e perciò le separa in un modo discriminatorio dagli altri scolari”. Lungi dunque dal promuovere l’integrazione, prosegue Grabenwarter, la legge mette a rischio l’accesso alla formazione da parte delle bambine islamiche e le espone all’esclusione sociale.

Con queste parole la Corte Costituzionale austriaca mostra di essere consapevole di quanto emerso da una indagine sociologica condotta in Francia dopo l’approvazione della legge antivelo del 2004. Come riferisce il Washington Post, i ricercatori scoprirono che il gap formativo nella scuola secondaria tra le studentesse musulmane e non musulmane era più che raddoppiato e che in particolare il tasso di abbandono scolastico da parte delle ragazze di fede islamica era incrementato notevolmente: molte allieve musulmane, inoltre,  impiegavano più tempo a completare il ciclo scolastico.

Poiché lo studio francese è stato portato a termine a distanza di tempo dall’introduzione del bando, se ne sono potuti misurare gli effetti anche dopo l’uscita delle studentesse dalla scuola. Ne è emerso che il gap occupazionale tra le donne musulmane e non musulmane si era ampliato di un terzo e il tasso di partecipazione al mondo del lavoro delle prime era diminuito del 50%. Le donne musulmane, infine, dopo l’applicazione del divieto sembravano essere diventate meno indipendenti, come evidenziato tra l’altro dal fatto che continuassero a vivere dai genitori o che avessero più figli delle native. Il bando avrebbe prodotto anche effetti non palpabili ma socialmente deleteri quali l’aumento della discriminazione percepita e quindi dello stress. Ma l’aspetto più singolare rilevato dagli studiosi è che le ragazze musulmane così prese di mira iniziavano a considerarsi come un gruppo a parte, separato dal resto della società e in un rapporto conflittuale con la comunità ospitante: tutti elementi questi che ostacolano l’inclusione sociale.

Ecco dunque uno dei motivi che rende importante la sentenza austriaca: al  di là dei rilievi di legittimità giuridica, essa esprime il dubbio diffuso che provvedimenti troppo radicali peggiorino anziché migliorare il problema che si proponevano di risolvere, ossia la marginalizzazione delle giovani musulmane d’Occidente. Se nell’ottica di Kurz la delicata questione del velo si sovrappone tout court a quella della radicalizzazione islamica che genera estremismo e terrorismo, la sua preoccupazione finisce per scaricarsi sui soggetti più deboli aggravandone la condizione. Kurz dovrà trovare ora un’altra strada.