L’attacco terroristico sferrato nella notte tra il 6 ed il 7 ottobre dai miliziani di Hamas nel territorio israeliano ha brillato per la violenza efferata con la quale si è abbattuto sui civili. Come diceva il compianto Gianni Baget Bozzo commentando gli scontri tra le milizie in Siria quarant’anni fa, “non c’è limite all’orrore, là dove si ha l’orrore del limite”.
Eppure la vera notizia, ancora più terribile se possibile, è data dall’assoluta inossidabilità del fronte anti-israeliano. In Europa come negli Stati Uniti, nei Paesi arabi come nell’Estremo Oriente, questo fronte ha dato vita a numerose manifestazioni di protesta contro Israele. La difesa dei miliziani di Hamas e per la causa del popolo palestinese è indifferente alle stragi e l’inossidabilità del mantra anti-israeliano ne costituisce una conferma.
Un tale fronte è percepito come miele nell’immensa periferia islamica che si è andata lentamente sedimentando in città come Milano, Roma, ma anche Parigi e Bruxelles. Il problema non è solo quello delle frange estremiste, più o meno radicalizzate, che vivono nelle periferie delle metropoli. A ben vedere, non è nemmeno quello degli imam che nelle moschee non spendono una parola di condanna per un massacro che fa inorridire il genere umano. Qui si tratta dell’universo degli immigrati islamici che si è insediato da tempo e che non ha nulla di radicale, ma resta ben lontano dall’integrarsi.
È un errore equiparare l’attuale ondata immigratoria alle migrazioni del secolo scorso, tra le quali la nostra Italia primeggiava. Noi italiani, assieme agli altri poveri d’Europa, si andava all’estero credendo nell’esistenza di sistemi più funzionali, meglio organizzati del nostro e, in qualche modo, anche più giusti, certamente più affidabili. La rapida integrazione degli italiani negli Stati Uniti non si sarebbe mai realizzata se i nostri nonni non avessero sinceramente creduto nella democrazia americana, nelle sue leggi come nei suoi princìpi. Le differenze restavano, ma l’ammirazione era oggettiva. Il risultato è stato che i figli di quegli immigrati si sono integrati al punto da essere oggi presenti nelle sfere più elevate dell’amministrazione statunitense, dell’economia e dell’arte.
Non è affatto così per l’immigrazione proveniente dall’immenso e variegato arcipelago islamico. Se esiste all’interno di questo una minoranza di intellettuali e di professionisti di ottimo livello, c’è un’ampia maggioranza che resta un mondo a sé, un universo dinanzi al quale il mondo occidentale resta dar-al-harb, il mondo dell’infedeltà, del mancato rispetto dei principi del Corano e con il quale non ci può essere nessuna ricomposizione. In quest’universo di immigrati, che vive una vita propria ed ha nella fratellanza musulmana, la umma, la sua principale fonte di sostegno e di sopravvivenza, gli stereotipi anti-israeliani costituiscono un vero e proprio mantra.
Il “discorso dell’odio”, come lo definiva André Glucksmann dopo gli attentati dell’11 settembre, non accenna a diminuire ed è di intensità tale da convincere il ministro francese degli Interni Gérald Darmanin a vietare le manifestazioni pro-Palestina per evitare scontri. Il fronte della protesta islamica anti-israeliana e l’area della marginalità sociale sono sempre a un passo dal fondersi l’uno con l’altro, come già si è visto nei disordini che hanno sconvolto la Francia a fine giugno. L’accoltellamento di un insegnante di Arras ad opera di un giovane ceceno, già segnalato a rischio di radicalizzazione, chiude il cerchio di un odio verso l’Occidente – e quindi verso Israele che ne rappresenta la punta avanzata – che non ha fatto che consolidarsi fino a diventare luogo comune inattaccabile ad ogni critica. Pronto a diventare propellente per qualsiasi rivolta.
Sbagliava per ottimismo Samuel Huntington a parlare di scontro tra civiltà. Le civiltà hanno le loro università attive, la loro cultura, i loro libri e, prima o poi, arrivano a confrontarsi ed a dialogare. Noi rischiamo seriamente di non avere più università capaci di una simile impresa, esattamente come non abbiamo nemmeno scuole medie superiori dove si riesca a studiare la storia del Novecento, in particolare quella che va dal 1945 al 1989. L’universo militante pro-Palestina incrocia così i propri legittimi sentimenti con un’ignoranza sostanziale della storia degli ultimi settant’anni che nessuno si dà la pena di insegnare. Non ci sono due civiltà, ma due arcipelaghi culturali che si ignorano l’un l’altro, ma dove in uno esiste una frangia attivissima che ha dichiarato guerra all’altro, ed intorno agli estremisti non c’è che un universo umano auto-emarginatosi, chiuso nella propria felice fratellanza, sua unica ricchezza.
I mezzi non mancano per recuperare una conoscenza adeguata e non ideologica del conflitto arabo-israeliano, riportando tutti nella casa di una cultura condivisa. Lasciare che le scorciatoie ideologiche prevalgano e i mantra anti-Israele continuino ad essere l’unica analisi presente, vuol dire non svuotare la polveriera dell’odio ma continuare ad alimentarla.
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