“Pressato dalle famiglie degli ostaggi e dall’impatto che la guerra a Gaza sta avendo sulla comunità internazionale, il governo di Israele offre una tregua di due mesi per la progressiva liberazione delle persone rapite da Hamas, in cambio di prigionieri palestinesi. Netanyahu, però, sembra ancora più determinato, al di là dell’eventuale cessate il fuoco temporaneo, a portare a termine l’operazione militare così come era stata pensata originariamente, arrivando a cancellare Hamas e a controllare Gaza.



Dietro la proposta, spiega Filippo Landigià corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, ci sarebbe anche l’interesse americano ad allentare la tensione, per non costringere Biden, in piena campagna elettorale per le presidenziali di novembre, a subire critiche per il comportamento dell’amministrazione americana in relazione all’azione militare di Israele nella Striscia e alle sue nefaste conseguenze sui civili. Critiche pesanti spesso arrivate anche dall’interno del suo stesso partito. I democratici, insomma, vorrebbero un po’ di respiro e la tregua servirebbe proprio a questo.



Hamas, per ora, non si è espressa ufficialmente. Un mediatore egiziano avrebbe riferito di un rifiuto della proposta israeliana, che però potrebbe essere la base per ravvivare le trattative tra le parti, anche per parlare del nodo cruciale della questione: che cosa succederà nel dopoguerra?

La questione degli ostaggi sta tornando a essere centrale, lo dimostra l’irruzione nella Knesset dei familiari delle persone rapite da Hamas. La proposta di Israele di concedere due mesi di tregua per il loro rilascio graduale può bastare a convincere la controparte a liberarli?

La proposta del governo israeliano presenta una novità: è stata largamente pubblicizzata, segno che c’è un interesse che vada in porto. È frutto di alcuni elementi concomitanti: per prima cosa le famiglie hanno aumentato la pressione sul governo e sul parlamento perché si sono rese conto che l’esercito non è in grado di liberare i prigionieri mancanti (136, ndr). I video trasmessi nei giorni scorsi hanno dimostrato che i bombardamenti israeliani hanno ucciso alcuni di loro. Secondo elemento: la guerra è arrivata a un punto critico per gli israeliani. L’ingresso dei carri armati nella parte centrale della Striscia di Gaza, in centri densamente costruiti, espone i soldati ad attacchi che non si riescono a gestire. Siamo ben oltre i 200 militari uccisi. Terzo aspetto: bisogna tenere conto dell’impatto che ha a livello internazionale la crescita esponenziale delle vittime civili. Nell’ultima settimana i morti e i feriti palestinesi hanno ripreso a crescere fino ad arrivare ai 200 morti al giorno e 300 feriti. Dati che hanno un impatto politico sui governi occidentali.



Il governo di Israele si è sentito messo alle strette e ha reagito proponendo due mesi di tregua?

È stato messo alle strette sugli ostaggi e sulla crescita dei civili morti. Sulla guerra il discorso è diverso. Netanyahu ripete ogni giorno, rendendo pubblico il suo dissenso rispetto alle pressioni statunitensi per fermare il conflitto, che ritiene di portarlo a compimento, distruggendo Hamas e controllando completamente Gaza. Si oppone anche alla proposta di Abu Mazen di una soluzione che prepari la creazione dello Stato palestinese e che comprenda Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Il governo è in dissenso politico oltre che militare rispetto agli Usa. Dopo una eventuale tregua di due mesi, se mai Hamas la accetterà, Netanyahu vuole portare a chiusura la guerra sul terreno strettamente militare a Gaza, senza cedimenti sull’avvio di un processo politico.

Esponendo la proposta di tregua israeliana, qualcuno ha parlato anche di un possibile ritorno dei palestinesi nel Nord della Striscia. Israele è disposto a concedere anche questo?

Il rientro della popolazione in zone totalmente devastate non è un ritorno a casa perché le case non ci sono. Un problema che deve essere affrontato dal punto di vista politico, senza il quale il futuro dei palestinesi è vivere nelle tende accanto alle macerie. Nessun Paese arabo intende investire nella ricostruzione se poi c’è il rischio che le case vengano nuovamente distrutte.

La protesta dei familiari degli ostaggi, la mozione di sfiducia, peraltro respinta, e le frizioni all’interno del governo significano che Netanyahu è sempre più debole?

Queste pressioni hanno aumentato la determinazione di Netanyahu a portare la guerra a uno sbocco che sia il totale controllo di Gaza, per presentarsi a nuove elezioni come vincitore militare. Il numero crescente di soldati che muoiono si è trasformato per Netanyahu in un’arma per dire “Se ci fermiamo saranno morti invano”, mentre in passato, come nel 2006, questo elemento aveva portato l’opinione pubblica a premere sul governo perché si fermasse.

Biden per portare Netanyahu dalla sua parte ha provato anche a proporre la smilitarizzazione di Gaza.

Siamo nel pieno della campagna elettorale Usa, l’interesse dei democratici e di Biden è che la vicenda Gaza si fermi per non danneggiare ulteriormente l’immagine del presidente. Biden ha bisogno di soluzioni tampone che da qui al 4 novembre impediscano che l’atteggiamento dei democratici relativamente a Gaza sia valutato negativamente. Il tema della smilitarizzazione di Gaza, che comporterebbe l’arrivo di una forza internazionale sul tipo di quelle nel Sud del Libano, diventa l’ultimo escamotage per cercare di fermare la guerra sia pure temporaneamente.

L’offerta di due mesi di tregua da parte di Netanyahu non è un passo indietro, l’obiettivo resta quello di portare a termine l’operazione militare così come è stata pensata inizialmente?

Sì. I due mesi andrebbero a coprire una fascia importante delle primarie americane. Biden è debole per una serie di motivi, a partire dall’età; due mesi di tregua permetterebbero al suo staff di attraversare le primarie togliendo agli avversari l’argomento della incapacità di concludere il conflitto, che ormai non è più solo limitato a Gaza. Altrimenti, le difficoltà di Biden anche all’interno del partito democratico potrebbero emergere ancora di più.

Secondo Associated Press, che lo avrebbe appreso da un funzionario egiziano, la proposta di tregua di Israele sarebbe stata rifiutata da Hamas. Un no definitivo o comunque una base per trattare?

Non c’è un annuncio ufficiale di Hamas. Ci sono perplessità da parte dell’organizzazione palestinese riferite ai mediatori egiziani. Non è esattamente un rifiuto. La proposta di Israele è per Hamas un serio problema politico. È nell’interesse di Hamas che la gente riceva molti più aiuti umanitari e che la trattativa per lo scambio dei prigionieri riprenda, coinvolgendo anche la Cisgiordania. Nel contempo, si è arrivati a un punto della tragedia di Gaza pesante dal punto di vista numerico, con quasi 26mila morti e 63mila feriti, per cui il problema del dopo tregua è inseparabile da quello dell’accettazione della proposta: il tema è la possibilità di avviare un confronto politico con la controparte israeliana che passi anche dalle autorità palestinesi dell’Olp, il vecchio organismo che ha radunato gran parte dei movimenti palestinesi ad eccezione di Hamas. Il rifiuto di Hamas è un elemento di trattativa. E la trattativa sul terreno militare e umanitario si lega ai futuri scenari politici. In mancanza di questa congiunzione, il rifiuto iniziale rischia di divenire un rifiuto definitivo.

(Paolo Rossetti)

 

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