Gantz fa un favore a Biden e chiede elezioni anticipate in Israele a settembre. Un tempo esponente dell’opposizione a Netanyahu, ora componente del gabinetto di guerra del governo di unità nazionale, vuole portare al voto Israele “per rinnovare la fiducia nel governo”, probabilmente dopo aver concordato la mossa con gli USA, ben sapendo che all’attuale inquilino della Casa Bianca un voto a fine estate farebbe comodo anche in vista delle presidenziali americane di novembre. Se dovesse sostituire l’attuale primo ministro alla guida dell’esecutivo, tuttavia, il generale israeliano non cambierebbe il suo approccio alla guerra, sarebbe solo più attento a tenere i rapporti con l’amministrazione americana.
Il rischio per Israele, insomma, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, è di rimanere ancorato alla sola soluzione militare, che di fatto lo impegna su più fronti: in Cisgiordania, con l’Iran e in Libano. Non è così che si può ricompattare un Paese che anche in occasione della richiesta di elezioni, condivisa dalle famiglie degli ostaggi e da buona parte dell’opinione pubblica, torna a mostrare quelle divisioni già evidenziate in occasione del dibattito sulla contestata riforma della giustizia promossa da Netanyahu. Il premier, comunque, le elezioni non le vuole e in parlamento ha i voti per rimanere in sella.
La proposta di Gantz di elezioni a settembre non è proprio un fulmine a ciel sereno: qual è il suo vero obiettivo?
È una richiesta tipica del politico Gantz, che da una parte cerca di cavalcare gli orientamenti dell’opinione pubblica israeliana e dall’altra di sfruttare le opportunità di potere che si presentano. Non a caso indica il mese di settembre come quello giusto per le elezioni anticipate: sa di fare un favore all’attuale amministrazione Biden, che a novembre ha davanti a sé le presidenziali americane, sempre che non getti la spugna prima. Tutti sanno che un cambio di governo a Tel Aviv, indipendentemente dalle sorti della guerra a Gaza, potrebbe giovare all’esito del voto per il partito democratico.
È stato imbeccato dagli USA, visto che è appena stato a Washington, oppure l’idea di un voto anticipato è venuta sia a lui che a Biden?
L’idea è dello staff di Biden, che è attraversato da profonde contraddizioni rispetto alla guerra nella Striscia, e dello stesso Gantz. Fermo restando che il generale non ha nessuna capacità parlamentare per obbligare Netanyahu e il Likud a sciogliere la Knesset: la maggioranza intorno al premier resiste, ha i 64 voti necessari per proseguire. Gantz, insomma, non ha margini di manovra per costringere Netanyahu alle elezioni. D’altra parte, se dovesse lasciare il gabinetto di guerra, la destra probabilmente lo accuserebbe di essere un militare che abbandona il campo.
Gantz vorrebbe un governo come quello attuale ma con sé stesso al posto di Netanyahu?
È stato capo di stato maggiore dell’esercito e guida di un nuovo partito che puntava a un cambio al governo, con l’eliminazione politica di Netanyahu. Dal punto di vista militare, ha alle sue spalle una serie di affermazioni terrificanti. Alcuni anni fa, in occasione di una delle crisi con Hamas, aveva detto che bisognava far tornare Gaza all’età della pietra. Quello che sta succedendo in questi mesi, quindi, non ha solo il consenso di Netanyahu, di Gallant e di altri esponenti dell’IDF, ma anche dello stesso Gantz. Tutti stanno concorrendo a perseguire questo terribile obiettivo, in parte già realizzato.
Politicamente, invece, come si è mosso il generale?
È stato colui che insieme a Lapid ha guidato l’opposizione a Netanyahu per molti anni, e quando, all’indomani di una delle elezioni anticipate degli ultimi tempi, il blocco dell’opposizione era giunto a essere paritario con il Likud, ha rotto l’opposizione a Netanyahu accettando di andare a governare con lui. Lapid non ha dimenticato questo sconcertante voltafaccia. Gantz ha dimostrato che per raggiungere un obiettivo personale di potere era disposto ad allearsi con colui che aveva contestato in campagna elettorale. Dovesse sostituire l’attuale primo ministro, non cambierebbe il modo di approcciare la guerra. Sarebbe più attento di altri al rapporto con le amministrazioni americane, anche se il rapporto di Bush e Trump con Netanyahu è stato assolutamente privilegiato.
La richiesta di elezioni anticipate viene anche almeno da una parte della società civile israeliana: per questo ci sono state proteste pure davanti a casa di Netanyahu. Quanto l’opinione pubblica condivide la proposta di Gantz? Questa richiesta certifica che il Paese è sempre più spaccato?
La spaccatura che si era manifestata in un anno di proteste contro la riforma dell’ordinamento giudiziario si è riproposta con maggiore forza, perché le famiglie degli ostaggi e una parte importante dell’opinione pubblica hanno compreso che, dopo un primo scambio di prigionieri, pur importante, per Netanyahu e i partiti di centrodestra questo tema non era più un elemento centrale della guerra. La rabbia è cresciuta man mano che è cresciuta questa consapevolezza.
La gente le vuole le elezioni?
I sondaggi sono ambivalenti: da una parte dicono che Netanyahu ha il consenso degli israeliani, che chiedono di eliminare militarmente Hamas da Gaza, nel contempo c’è una maggioranza che vorrebbe una trattativa per liberare gli ostaggi. Sono due richieste contraddittorie e sono un segnale dello sbandamento dell’opinione pubblica, che in assenza di indicazioni chiare da parte della politica chiede soluzioni a problemi diversi che vanno a confliggere. I soldati israeliani non sono stati capaci di liberare nessuno e una riflessione sull’incapacità militare a concludere il conflitto dovrebbe indurre a scegliere la via della trattativa, che però viene limitata all’eventuale liberazione degli ostaggi.
C’è il rischio che il vero nemico di Israele sia interno, cioè che alla fine, indipendentemente dal livello di sconfitta inflitto ad Hamas, il Paese si trovi ancora più diviso e quindi più debole per riuscire a garantirsi un futuro nel Medio Oriente?
Il problema di Israele non è legato alla fine della guerra a Gaza, ma a come intende perseguire il tema della sua sicurezza. Come in una terribile partita a poker con gli altri protagonisti mediorientali, si assiste a un rilancio sul piano strettamente militare in un contesto internazionale dove il maggiore protagonista, gli USA, è incapace di indicare delle soluzioni politiche. Anzi, procede a un invio spaventoso di armi, come l’ultimo, che comprende bombe da 900 chili e 25 nuovi F-35, che si aggiungono ai molti già inviati. Significa che abbiamo di fronte non la fine di un conflitto ma l’apertura di nuovi fronti: uno è già aperto, in Cisgiordania, poi c’è quello indiretto con l’Iran e il fronte con il Libano. Questo, storicamente, per una parte politica di Israele significa la possibilità di ricompattare l’unità interna sul tema della sicurezza. Ne abbiamo avuto la conferma con il richiamo di riservisti dell’aviazione militare.
Intanto, Fatah ha preso posizione contro l’Iran e le sue interferenze in Cisgiordania. Come mai una presa di posizione del genere: la possibile ricomposizione di un fronte unico palestinese con Hamas è già tramontata?
Il cambio di governo dell’ANP voluto da Abu Mazen, la rottura dell’accordo fra Hamas e Fatah raggiunto a Mosca, la discesa in campo della polizia palestinese, che agli occhi della sua opinione pubblica appare un corpo di mercenari (sono le persone pagate meglio dall’ANP), dimostra il tentativo di Abu Mazen di assecondare le richieste americane di riprendere un suo ruolo in Cisgiordania. Quello che è evidente a chi percorre la West Bank oggi, però, è che l’esercito israeliano sta bloccando totalmente ai palestinesi la possibilità di muoversi. Blinken ha ripetutamente chiesto ad Abu Mazen di smarcarsi ulteriormente da Hamas, ma le voci che vengono da Ramallah non hanno alcun peso. Persino la base di Fatah non condivide la rottura dell’accordo di Mosca, dove si era deciso di riprendere una trattativa seria per un’unità politica tra le fazioni palestinesi. Abu Mazen, invece, su richiesta USA, ha rovesciato il tavolo e ha cambiato il suo governo. È il triste tramonto politico di un’Autorità che non controlla più niente.
(Paolo Rossetti)
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