“È tutto nostro”. Come slogan, bisogna riconoscerlo, ha molti pregi: breve, chiaro, mobilitante. I militanti israeliani di destra che hanno tappezzato di manifesti le strade che da Gerusalemme si inoltrano in Cisgiordania, purtroppo, hanno le idee ancor più chiare, sul futuro di questa regione. Sono convinti, infatti, che i palestinesi non debbano avere né domani, né dopodomani uno Stato (anche se di piccole dimensioni) su cui far sventolare la propria bandiera.
Al contrario per i coloni israeliani è Israele che dovrà estendere la propria sovranità, quella giuridica, e non solo quella militare di Stato occupante sull’intera Cisgiordania. Per completare il proprio messaggio politico i coloni hanno pensato bene di innalzare enormi manifesti con le facce di Trump e Netanyahu. A loro hanno chiesto, a caratteri cubitali, di affermare la “sovranità” e di farlo “nel modo giusto”. Un invito ed insieme un monito: a Trump perché non insista a legare la nuova più estesa sovranità israeliana al riconoscimento dell’esistenza di uno staterello palestinese. A Netanyahu i coloni lanciano invece l’ammonimento a non accettare condizioni capestro, che pregiudicherebbero la nascita della grande Israele.
Il movimento dei coloni, per i numeri che mette in campo – quasi mezzo milione insediato in Cisgiordania, e circa 200mila nella parta araba di Gerusalemme – non si può impunemente aggirare. Tanto meno per Bibi Netanyahu, che per rimanere al potere ha già dovuto scegliere l’alleanza con l’opposizione di Benny Gantz.
Il primo ministro Netanyahu, tuttavia, ha fatto della pietra d’inciampo dei coloni una nuova opportunità politica: nessuna formalizzazione giuridica, il primo luglio scorso, per l’annessione già esistente del 30 per cento della Cisgiordania, ma nel contempo nessun riconoscimento di uno Stato palestinese. Il Piano Trump lo prevede, ma la situazione lo impedisce. Questo il politico Netanyahu ha detto agli emissari di Trump, giunti in Israele per rappresentare le perplessità di fronte ad un’annessione israeliana, da iniziare il primo luglio, senza alcun impegno politico verso i palestinesi. Anche perché l’annessione non è l’inglobamento delle sole colonie israeliane, ma anche la rete di strade che le unisce e che attraversano la Cisgiordania. Soprattutto è la formalizzazione dell’annessione della Valle del Giordano, dimenticata in questi giorni nei commenti di alcuni giornalisti, ma ben presente ai palestinesi di ogni appartenenza politica e fede religiosa. Quella Valle, già oggi sotto controllo militare israeliano, diventerebbe in futuro la cinta che potrebbe strangolare, anche economicamente e socialmente, qualsiasi Stato o staterello palestinese.
Per questo l’Autorità nazionale palestinese alza la sua flebile voce e chiede una reale trattativa su questo punto. Per questo la Comunità internazionale, Stati europei in testa, chiede il consenso palestinese, la cui assenza sarebbe foriera di nuovi anni di conflitto, non più a “bassa intensità” come oggi è definito.
Netanyahu e Gantz, alle loro condizioni, avrebbero forse accettato lo staterello palestinese, ipotizzato dal Piano Trump. Le molteplici resistenze, interne agli israeliani, ai palestinesi, alla comunità internazionale, hanno imposto a Netanyahu la necessità di rinviare i tempi dell’annessione. Lo status quo, paradossalmente, potrà avanzare verso nuovi equilibri favorevoli agli israeliani. Poi arriveranno le elezioni americane e Trump o Biden dovranno riprendere in mano la situazione.
Netanyahu, da parte sua, potrà dire di non aver svenduto la grande Israele. Nel contempo i due terzi degli israeliani, che oggi si dicono contrari ad annessioni unilaterali, potranno andare avanti nell’illusione che un accordo di pace possa raggiungersi alle condizioni stabilite dagli israeliani ma accettate dai palestinesi. Il presente ed il futuro di Gerusalemme, che gli israeliani vogliono solo in loro possesso, purtroppo spiega come un accordo di pace si vuole costruirlo percorrendo strade impossibili.