“Le immagini che i social diffondono in tutto il mondo su Jenin dimostrano che c’è un grande salto di qualità nell’intervento israeliano. Non solo per la vastità dell’operazione, per il numero enorme di soldati impiegati in un centro urbano relativamente piccolo come lo storico campo profughi, ma anche per la metodologia che si sta utilizzando, che punta all’uscita dal campo di coloro che lo abitano”. A Jenin sono morti dieci palestinesi, ma, come spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri, il problema non è solo quello. C’è la volontà israeliana di fare tabula rasa per impedire ai miliziani che risiedono lì, ma a questo punto anche alla gente comune, di tornare nelle loro case.



“Non si spiega altrimenti – continua Landi – perché i bulldozer israeliani stiano sistematicamente distruggendo le strade di accesso al campo profughi di Jenin e quelle interne, oltre ad aver tolto acqua e luce al campo stesso. Il risultato è che oltre mille famiglie che abitano lì sono andate via. Parliamo di 4mila civili”. Una situazione che sta diventando sempre più grave e che potrebbe segnare un’escalation nel conflitto israelo-palestinese, tanto da prefigurare un’azione ancora più decisa da parte del Governo Netanyahu. Con conseguenze difficili da prevedere. Ieri Israele ha comunque iniziato il ritiro da Jenin.



Perché questo salto militare e anche politico?

Militare perché denota una difficoltà delle forze di sicurezza israeliane di raggiungere e colpire un numero sempre più vasto di miliziani palestinesi che sono fuori dai gruppi tradizionali, da Hamas e dalla Jihad islamica, e che esprimono l’enorme frustrazione dei giovani palestinesi per una situazione che sembra non avere sbocchi politici, economici e sociali.

Come si configurano queste nuove formazioni rispetto a quelle più tradizionali?

Sono militanti cresciuti nelle città palestinesi come Nablus, Jenin, Hebron, Tulkarem, Gerusalemme Est. Giovani culturalmente di un livello più alto rispetto ai loro predecessori che hanno imbracciato le armi in altre epoche. E con una connotazione meno ideologizzata. La loro appartenenza ai gruppi tradizionali, se c’è, è molto labile, mi riferisco in particolare ad Hamas e alla Jihad. Questo rende molto più complicato, per le forze di polizia israeliana, localizzarli e prevenirli. È un fenomeno numericamente sempre più vasto, ma che può contare su una solidarietà dell’opinione pubblica per certi aspetti maggiore rispetto ai gruppi tradizionali.



Perché hanno sentito il bisogno di distinguersi da Hamas e dalla Jihad? Questi gruppi sono screditati tra i palestinesi?

No. Hamas per esempio è un gruppo militare e anche politico che non utilizza la forza su vasta scala perché non intende subire su Gaza la reazione israeliana. Qui la morsa militare israeliana può stringere quasi 2 milioni di persone. C’è una dimensione politica di Hamas e Jihad che sembra non accogliere la volontà di rivolta sul territorio della Cisgiordania. Questo è un particolare molto interessante nello scenario attuale: per decenni l’attenzione è stata rivolta a Gaza ma ora è sulla Cisgiordania, perché negli ultimi vent’anni, nel silenzio della comunità europea e internazionale, c’è stata un’avanzata dei coloni e la presenza sempre più massiccia e opprimente dell’esercito e delle altre forze di sicurezza israeliane, in particolare la Polizia di frontiera, che rendono la vita del palestinesi sempre più difficile ed esposta.

Queste nuove formazioni interpretano meglio il sentire della gente palestinese?

Sì. E hanno messo in crisi l’autorità politica di Abu Mazen: accusano le autorità politiche palestinesi di non fare nulla. La novità della situazione, comunque, sta in una metodologia di contrasto diversa e più ampia da parte di Netanyahu ma anche di Ben Gvir e Smotrich, che spinge alla fuoriuscita dei palestinesi che non rispettano fino in fondo l’assoggettamento della popolazione alle regole imposte dagli israeliani. Nei suoi promemoria, Smotrich, il ministro della Finanza ma anche viceministro della Difesa e con la supervisione sui territori della Cisgiordania, fa sì che l’esercito abbia la copertura politica, che sia addirittura indotto a utilizzare forme di contrasto alle milizie armate e al terrorismo che coinvolgono senza nessuna remora la popolazione.

In che modo la gente ci va di mezzo?

La sua semplice esistenza viene considerata attività di copertura dei miliziani che vivono nei centri abitati. È finita l’epoca degli attacchi mirati: si punta a svuotare di fatto interi quartieri delle vecchie città palestinesi. Nel momento in cui elicotteri, carri armati, soldati torneranno nelle loro basi lasceranno dietro di loro una tale scia di distruzione, che quei luoghi non saranno vivibili.

Gli americani approvano l’operato del governo Netanyahu?

Tutto questo ha avuto la benedizione della Casa Bianca sostenendo che Israele ha diritto di difendersi, ma è il prezzo che gli Usa pagano all’esecutivo israeliano, perché su un altro fronte, per loro più importante, non ci sia opposizione da parte di Tel Aviv. Parliamo della volontà americana di non creare un nuovo conflitto con l’Iran, storico nemico di Israele. Anzi, di realizzare le condizioni per raggiungere un nuovo accordo sul nucleare, di favorire nuovi rapporti diplomatici fra Washington e Teheran. La ricerca di un nuovo status quo regionale lascia libero Netanyahu di operare con una metodologia che rischia di essere un terribile boomerang per la stabilità di Israele stesso.

Perché, intanto, Netanyahu andrà in visita a Pechino? È un messaggio agli americani?

Vuole dimostrare una presenza internazionale. Appare come un tentativo di mostrare agli Usa che Israele non è succube della loro strategia in Medio oriente.

I cinesi possono diventare uno degli attori in questa crisi?

Non credo che in questa situazione la Cina possa giocare un suo ruolo. Il massimo che ha potuto fare nell’area lo abbiamo già visto con il riavvicinamento di Arabia Saudita e Iran. È un incontro di facciata che serve a tutte e due le diplomazie per affermare una loro autonomia rispetto ad altri protagonisti. Il giudizio di Biden e della comunità ebraica americana su Netanyahu è molto severo.

Un bel problema per gli Stati Uniti: senza Israele non avrebbero altri appoggi nell’area.

Certo. Ma non si possono neanche dimenticare le proteste interne ad Israele. Migliaia di oppositori di Netanyahu si sono recati all’aeroporto Ben Gurion, un’iniziativa fuori dalle regole del dibattito politico nazionale. I problemi politici del Governo non sono risolti. Netanyahu ha proposto gli emendamenti per chiudere la riforma della giustizia, ne ha accettati alcuni dell’opposizione ma ha mantenuto per l’esecutivo il potere di controllare la nomina dei giudici della Corte Suprema e non solo. Il Paese su questo è ancora profondamente diviso.

Adesso c’è da aspettarsi che i palestinesi reagiranno in modo ancora più violento?

Bisognerà vedere se ci sarà una reazione da Gaza, o se addirittura il Governo in qualche modo la stia provocando.

C’è il timore che Israele voglia provocare una situazione che giustifichi una resa dei conti finale?

Durante la precedente crisi ci furono attacchi su Gaza quando da lì non partivano ancora razzi. Questo colpì molto l’opinione pubblica e la stampa israeliana. Poi c’è stata la mediazione egiziana e tutto si è concluso. Ma il rischio c’è. Anche perché quello che è successo a Jenin non si può cancellare dai canali multimediali e dai social.

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