La sentenza della Corte internazionale di giustizia (ICJ) che intima a Israele di fermare l’operazione a Rafah non cambierà niente. Per il governo Netanyahu non conta: si continuerà a combattere e a negare risolutamente ai palestinesi la possibilità di avere un loro Stato. Il pronunciamento dei giudici, che chiedono anche la liberazione degli ostaggi e la riapertura del valico di Rafah, è formalmente vincolante ma non ci sono strumenti per attuarlo, tanto più che Israele non ha sottoscritto gli accordi per la nascita del Tribunale. Per Gaza, insomma, non bisogna farsi troppe illusioni, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente; la situazione potrebbe cambiare solo se cadesse il governo. L’ultimatum dato da Gantz a Netanyahu, però, non basta: il generale deve chiarire come intende risolvere guerra e questione palestinese. E se anche guidasse il governo, dovrebbe tenere conto delle posizioni dei coloni e di un Paese molto più estremizzato di prima.



Che pressione può esercitare la sentenza della Corte internazionale di giustizia su Netanyahu?

Il pronunciamento della Corte internazionale, dal punto di vista pratico, per Israele conta meno di zero e non avrà nessuna influenza concreta su quelli che sono e saranno i piani per il futuro dal punto di vista militare. È un colpo all’immagine.



Gli USA non hanno commentato più di tanto la sentenza. Ma i giudici dell’Aja non dicono paradossalmente quello che, almeno a parole, in parte gli americani hanno sempre sostenuto e cioè che non bisogna attaccare Rafah?

Il fatto che le loro posizioni coincidano o meno con quelle della Corte non significa niente: quando si arriverà al dunque, al momento, ad esempio, di arrestare Netanyahu, anche se stavolta per conto della Corte penale internazionale (CPI), non credo che approverebbero, rimarranno con Israele.

Su Times of Israel si riporta la tesi secondo cui per quattro giudici su quindici della Corte in realtà a Israele è stato chiesto non di fermare tout court le azioni militari a Rafah, ma solo quelle che porterebbero alla distruzione parziale o totale dei palestinesi. Un modo per giustificare il proseguimento dell’operazione?



È una questione di lana caprina, bisogna leggere la decisione alla luce anche dei mandati di cattura spiccati contro i vertici di Hamas e di quelli di Israele. Comunque negli ambienti della giustizia internazionale ritengono che Israele stia commettendo dei crimini di guerra. La decisione di non attaccare Rafah deve essere interpretata in questo contesto: significa non portare avanti i crimini di guerra.

Come si spiega questa “offensiva” della giustizia internazionale contro Israele? È “teleguidata” da qualcuno o sono semplicemente i magistrati che fanno il loro lavoro?

È teleguidata dalla pressione dell’opinione pubblica: ovunque, nei campus universitari USA piuttosto che a Torino al Politecnico, ci sono movimenti che stanno facendo una fortissima pressione da settimane, con personaggi conosciuti che si espongono, penso a Cate Blanchett sul tappeto rosso a Cannes con un vestito che ricorda i colori palestinesi. Una situazione di cui le democrazie occidentali devono tenere conto, anche se paradossalmente è stato il Sudafrica a fare il primo passo dal punto di vista giudiziario. Non credo che dietro ci sia un disegno di qualcuno.

La sentenza della ICJ è operativa e vincolante ma di fatto i giudici non hanno strumenti per farla rispettare. Anche per questo Israele continuerà ad applicare i suoi piani a Rafah?

Israele, come gli Stati Uniti, la Russia e altri Paesi, non ha sottoscritto gli accordi che hanno istituito il Tribunale. Non c’è nessun motivo per cui dovrebbe prendere in considerazione la decisione dei giudici, se non per ragioni di immagine, che però è già stata compromessa nel momento in cui è stata avanzata una causa in cui si ipotizza addirittura un genocidio.

L’operazione di Rafah non rischia alla fine di portare solo problemi a Israele? Anche l’intelligence americana dice che finora sono stati uccisi un terzo dei miliziani di Hamas e neanche l’azione in corso permetterà di neutralizzare l’organizzazione. Perché proseguire comunque?

Probabilmente gli israeliani pensano che usando più violenza e avendo più tempo a disposizione alla fine riusciranno nel loro intento. Ma anche se avessero ucciso il 90% degli appartenenti a Hamas, quanti tra coloro che sono rimasti e hanno parenti feriti o hanno perso i loro cari e la casa si arruolerebbero in un’organizzazione come Hamas o simile dal punto di vista ideologico? Probabilmente dieci volte tanto. Senza andare alle radici del conflitto e dare ai palestinesi un loro Stato riconosciuto da tutti e che non sia sotto embargo o assedio, la questione non si risolverà. Purtroppo il punto di vista del governo attuale non va in quella direzione: il fine ultimo è di occupare più territorio possibile e anche di spingere i palestinesi fuori dalla loro terra.

Lo scenario, insomma, è che sentenza o non sentenza, mandati di cattura o no, il governo Netanyahu andrà avanti a Rafah, senza prendere minimamente in considerazione la prospettiva dei due Stati?

La prospettiva dei due Stati non la prendono in considerazione, lo hanno ribadito chiaramente più volte. D’altronde questo è il presupposto su cui hanno fatto campagna elettorale e sono stati eletti. Tutta la base dei coloni, soprattutto in Cisgiordania, si aspetta questo. Se mai verranno rieletti sarà sempre su quelle basi. Su Gaza, non solo su Rafah, ormai sono andati troppo avanti, non possono fare altro che continuare così.

Gantz ha dato un ultimatum al governo per cui se entro l’8 giugno non saranno chiari i piani per il dopoguerra a Gaza non appoggerà più l’esecutivo di unità nazionale. Visto che l’unico modo per cambiare la situazione sembra rimuovere Netanyahu, questa iniziativa politica può segnare una svolta nel conflitto?

Al momento Gantz è il candidato più probabile in un’elezione contro Netanyahu; quindi, il generale sta facendo semplicemente politica, rivolgendosi all’opinione pubblica interna, soprattutto a chi contesta questo governo, in particolare al movimento dei parenti degli ostaggi. Tutto va letto nell’ottica di una campagna elettorale sostanzialmente già in corso. L’unica possibilità di sbloccare la situazione comunque rimane quella di cambiare governo.

Ma l’ultimatum basterà a Gantz per mettere in difficoltà Netanyahu?

Non ho capito quale sarebbe per Gantz la soluzione per la guerra in corso e, più in generale, per il conflitto israelo-palestinese. Deve chiarire qual è la prospettiva in cui si mette e soprattutto, una volta eventualmente al governo, dovrà mantenere fede alle sue parole: bisogna vedere con quali forze dovrà trattare e di quale maggioranza disporrà, tenendo conto che chi aveva dato prospettive concrete di pace come Rabin è stato ammazzato. E oggi la società israeliana è molto più estremizzata di prima, i coloni hanno molto più peso dal punto di vista elettorale: una realtà con cui Gantz dovrà comunque fare i conti.

(Paolo Rossetti)

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