È ancora tutt’altro che sicuro che i partiti israeliani riescano a formare entro l’11 dicembre un governo di grande coalizione, evitando così le terze elezioni anticipate in un anno. Nel frattempo la difficile impasse politica di Gerusalemme ha contagiato la campagna elettorale di un voto anticipato già deciso: quello fissato per il 12 dicembre in Gran Bretagna.



Il leader del Labour, Jeremy Corbyn, è finito nuovamente nel mirino per sospetto antisemitismo a causa delle sue note posizioni critiche verso Israele sulla questione palestinese. Nel confronto finale fra Corbyn e il premier conservatore Boris Johnson sul futuro del Regno Unito dopo Brexit, si è inserito con forte determinazione polemica il rabbino capo degli ebrei britannici. Ephraim Mirvis ha apertamente invitato gli elettori israeliti a negare il loro voto a Corbyn, unfit to be british premier. La comunità ebraica del Regno Unito si ritrova dunque orientata  – su raccomandazione della sua massima autorità religiosa – ad appoggiare i Tories di “BoJo”. Una forza sovranista anti-Ue, sintonica con gli Usa di Donald Trump: contro cui è appena sceso in campo un campione della diaspora ebraica internazionale come Michael Bloomberg.



Una delle contestazioni più nette all’anti-endorsement di Mirvis è rimbalzata a Londra direttamente da Israele. Haaretz, principale quotidiano laico-progressista fra Gerusalemme e Tel Aviv, ha criticato il rabbino capo di Londra soprattutto sul piano del metodo: vedendo nel no di Mirvis a Corbyn un ennesimo caso sospetto di strumentalizzazione della questione antisemitismo/antisionismo a fini politici. L’affaire Corbyn sembra infatti esploso non per caso in coincidenza con l’attuale stallo politico israeliano: radicato nel gioco di spinte e resistenze al superamento della decennale premiership di Bibi Netanyahu, connotata da una forte integralizzazione dello Stato ebraico in senso nazionalista-religioso.



“Corbyn non è un antisemita, non lo è mai stato”, ha sentenziato Gideon Levy, storica firma di Haaretz, noto anche in Italia. “Il suo vero peccato – ha sottolineato – è la sua tenace posizione contro l’ingiustizia nel mondo, inclusa la versione che Israele perpetra”. Il leader del Labour appare quindi vittima della “nuova strategia di Israele e dell’establishment sionista a bollare come antisemita ogni cercatore di giustizia e come odiatore degli ebrei chiunque critichi lo Stato di Israele”. È questo che oggi viene dipinto come “antisemitismo”, in modo molto poco accettabile anche per l’affermato opinionista della sinistra israeliana. È così che – nel quadro da lui disegnato – un linguaggio ostile finisce  per colpire e discriminare “il nemico Corbyn”: mentre in Europa  “l’ungherese Viktor Orbán e l’Fpö austriaco non appaiono un pericolo per gli ebrei” (nell’articolo non vengono citati alcun leader o forza politica italiani). E sono le interferenze  di questa “macchina della propaganda” nelle democrazie altrui e le raffiche di denunce hate di presunto antisemitismo a preoccupare Haartez: in quanto “minacciano di paralizzare e silenziare l’Europa riguardo Israele”.

Non manca, infine, un argomentato contrattacco personale a Mirvis: nato e cresciuto in Sudafrica, ma poi vissuto anche in un insediamento della West Bank palestinese. Uno che ha conosciuto Capetown e Johannesburg – annota Levy – “dovrebbe aver imparato bene cos’è l’apartheid e perché va combattuta”. Invece il rabbino capo britannico sembra privilegiare metri differenti: “Non riconosce identità alla lotta per la libertà del popolo palestinese” e “continua a non vedere nulla di sbagliato nella politica di occupazione”. Nel frattempo “un primo ministro britannico che critica Israele”, benché espresso da una democrazia come quella del Regno Unito, è fin dal suo status di candidato “simbolo di antisemitismo”, pregiudizialmente non gradito a forze finora maggioritarie in Israele e nella comunità ebraica internazionale.