“Quanto è vicino il governo di Netanyahu a distruggere lo stato di diritto in Israele?” La domanda è il titolo di un servizio del quotidiano israeliano Haaretz, che mette in fila i segnali di allarme per il Paese: il procuratore generale a rischio rimozione, esponenti di governo e parlamento che sostengono i soldati accusati di crimini di guerra, la riforma della giustizia che vuole privare la magistratura della sua autonomia. Ben Gvir può essere preso a simbolo di tutto ciò: proprio lui che è ministro della Sicurezza ha violato le norme che riguardano il Monte del Tempio o Spianata delle Moschee, che dir si voglia. Tutti segnali di una spaccatura che, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, segnava il Paese già prima del 7 ottobre. Anzi, il tragico blitz di Hamas ha ricompattato Israele proprio mentre si evidenziavano segnali di disgregazione. Sembra quasi che la guerra serva a mantenere l’unità: in pace si manifesterebbero le contraddizioni presenti fin dall’inizio dello Stato israeliano, ma che adesso si sono acuite. Intanto continuano le trattative per il cessate il fuoco e per gli ostaggi, ma nessuno ci crede più.



Ben Gvir ha violato le disposizioni per la Spianata delle Moschee: è andato a pregare dove in realtà non si potrebbe. Se il ministro della Sicurezza viola le regole, cosa significa per Israele?

È stato eletto sulla base di una linea ideologica molto chiara: andare contro tutte le disposizioni in vigore, contro lo status quo. Si parte dagli insediamenti in Cisgiordania per finire con l’eventuale ricostruzione del Tempio.



La sua risposta infatti è stata: “Sto facendo la mia politica”.

Questo Paese prima o poi dovrà andare alle elezioni: Ben Gvir persegue la politica che lo avvantaggia. Non vi è alcun dubbio che dopo il 7 ottobre la società israeliana si sia radicalizzata e che ci sia una tendenza verso posizioni più fondamentaliste, soprattutto da parte dei coloni. C’è un capitale elettorale che qualcuno deve riscuotere.

Ben Gvir e Smotrich, ministri del governo Netanyahu, provocano continuamente sull’occupazione di Gaza, gli aiuti ai palestinesi e altro ancora. C’è una spaccatura nel governo, nei confronti di Netanyahu, di Gallant che riflette quella più ampia del Paese?



Gli ultimi sondaggi, pubblicati da Times of Israel, danno il partito di Netanyahu in vantaggio: avrebbe 22 seggi e sarebbe la prima forza politica del Paese. E il governo attuale si regge sull’alleanza con i fondamentalisti. Non so quanto ci sia una spaccatura tra queste ali dell’esecutivo. Anche perché Ben Gvir le combina grosse ma poi non viene mai “punito”, anzi, semmai viene promosso. Ha avuto anche una delega sugli insediamenti in Cisgiordania.

Anche una parte del Likud sembra convergere verso queste posizioni. È così?

C’è comunque una certa affinità, assonanze nel modo di pensare. Al massimo ci sono dissonanze sulle modalità da seguire o le tempistiche. Gli obiettivi, però, sono gli stessi: mettere le mani definitivamente sulla Cisgiordania e spingere i palestinesi fuori dal Paese.

La spaccatura all’interno della società israeliana invece è evidente?

Sì. Si è visto molto bene anche prima del 7 ottobre con le manifestazioni contro Netanyahu per la riforma della giustizia. Una spaccatura acuitasi poi alla luce del fallimento dell’intelligence il 7 ottobre e della gestione degli ostaggi, i cui familiari fanno pressione per il cessate il fuoco e il negoziato. Questa parte della società, per non parlare di coloro che pensano che si debba convivere con i palestinesi, è totalmente staccata rispetto alle logiche del governo.

Il problema della pace non riguarda solo quindi i rapporti con i palestinesi, ma è aperta anche la questione della pacificazione interna al Paese? Può essere messa a rischio l’esistenza stessa di Israele?

Quella israeliana fin dall’inizio è una società fatta da molte componenti con background culturali diversi, anche con problemi di razzismo interno, tra ebrei che vengono dall’Europa dell’Est e quelli che arrivano dall’Etiopia. Tutti gli analisti sostengono che l’unica cosa che fa da collante è la minaccia comune, contro un piccolo Paese circondato da altri che sono ostili. Qualcuno dice che, in un certo senso, l’attacco del 7 ottobre ha fatto un favore alla società israeliana: in un momento di grande spaccatura interna, che poteva essere un primo passo verso la disintegrazione dello Stato israeliano, c’è stato un ricompattamento dovuto a un grande pericolo. Israele è uno Stato molto giovane, costruito con un melting pot, tenuto insieme da un’idea ma con molte divisioni.

Paradossalmente Israele deve quasi temere più la pace che la guerra?

Da un punto di vista strumentale a Israele conviene rimanere in uno stato di allarme continuo: compatta la società e le dà un obiettivo comune. Nel momento in cui c’è la pace, non ci si concentra sul nemico esterno ma iniziano liti interne che possono portare alla disintegrazione.

A parole, le trattative per gli ostaggi e il cessate il fuoco continuano. Gli iraniani sarebbero anche disposti a non attaccare Israele se ci fosse un accordo, anche se Sinwar chiede la fine delle operazioni militari prima di iniziare a negoziare. Sono destinate a fallire anche stavolta?

Queste trattative le vogliono solo a parole, forse per avere una pausa tattica. Sappiamo che il capo di Hamas è Sinwar, l’architetto dell’attacco da cui è iniziato tutto. Sostiene che il numero di civili uccisi, che aumenta di giorno in giorno (sono quasi 40mila, nda), sia benefico per la causa palestinese e che prima o poi questo causerà dei contraccolpi su Israele dal punto di vista dell’immagine pubblica.

È come se dicesse: “Più muore la mia gente e più c’è la possibilità di salvarla”?

Esattamente. Lo ritiene un sacrificio necessario e su questa linea sono più o meno tutti quelli di Hamas. Dall’altra parte c’è Netanyahu, al quale questa guerra serve per tenere lontana l’opinione pubblica dai problemi interni. Neanche a lui conviene concludere il conflitto.

Ma Teheran rinuncerebbe veramente ad attaccare se ci fosse un’intesa sul cessate il fuoco?

Sono mesi che si parla di cessate il fuoco, la vedo dura che Israele dia qualcosa in cambio di un mancato attacco dell’Iran. Quale sarebbe l’attacco che potrebbe spaventare Israele? Neanche all’Iran converrebbe.

Il Segretario di Stato USA Blinken critica duramente Ben Gvir e chiede a Israele di evitare l’escalation, poi però gli USA approvano la fornitura di un pacchetto da 20 miliardi di dollari di armi. Nel frattempo, tolgono il divieto alla vendita di armi offensive all’Arabia Saudita per averla dalla loro parte in relazione a una futura gestione di Gaza. La loro politica non cambia?

Sin dall’inizio hanno supportato incondizionatamente Israele, non importa quali siano le conseguenze sui civili, né le provocazioni di Ben Gvir: si sono impegnati anima e corpo nella difesa di Israele, l’alleato più importante nell’area. Se avrà bisogno di sostegno, lo daranno. In questa politica rientra l’obiettivo di procurare a Israele ogni supporto nell’area cercando di rabbonire gli altri Paesi.

Secondo Haaretz, l’IDF usa i civili palestinesi arrestati come scudi umani per perlustrare i tunnel, mandandoli in avanscoperta prima che arrivino i soldati. Un altro esempio delle contraddizioni che animano Israele?

Basta vedere il trattamento a cui sono sottoposti i civili palestinesi nelle prigioni israeliane, dove vengono torturati. Nove soldati israeliani sono stati arrestati per aver sodomizzato un civile detenuto. La scusa è che sono tutti terroristi, componenti di commandos di Hamas; lo stesso esercito, però, ha rilasciato due terzi di quei civili senza accusarli di niente, appurando che non c’entrano con gli attacchi del 7 ottobre. Basta questo per capire il modus operandi delle autorità israeliane e il clima che si respira in Israele. I familiari dei soldati arrestati e l’estrema destra hanno assalito le caserme per protestare contro l’arresto. Un episodio che conferma i problemi della democrazia israeliana.

(Paolo Rossetti)

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