Un razzo lanciato dallo Yemen è arrivato nel cuore di Israele. Mentre Netanyahu rimette al centro la necessità di attaccare Hezbollah in Libano per far tornare la gente nelle proprie abitazioni nel nord di Israele, Tel Aviv deve nuovamente far fronte alla minaccia proveniente dagli Houthi, che, anzi, promettono a modo loro di ricordare il massacro del 7 ottobre dell’anno scorso, annunciando altre azioni violente. Insomma, Israele, nonostante le dichiarazioni bellicose del suo premier, deve affrontare un doppio allarme sulla sicurezza.



Due fronti importanti per Netanyahu, perché, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, autrice de Il Gelso di Gerusalemme (Feltrinelli, 2024), lo mettono alla prova proprio sul tema su cui sta puntando più di tutti: quello della sicurezza, promessa a più riprese ma rimasta un obiettivo inattuato. Una situazione difficile da risolvere, il cui nodo principale rimane Gaza: con il cessate il fuoco nella Striscia finirebbe anche il resto del conflitto.



Cosa ci dice il nuovo lancio di missili dallo Yemen contro Israele?

È importante perché mostra la fragilità della sicurezza israeliana: il missile ha bucato tutti i sistemi di difesa e, soprattutto, è arrivato a sei chilometri dall’aeroporto Ben Gurion, uno degli obiettivi più importanti di Israele. Un messaggio durissimo, considerando che dovrebbe essere stata colpita la linea ferroviaria che unisce Tel Aviv a Gerusalemme, una linea che serve i pendolari, quindi doppiamente importante. Questo attacco arriva nel momento in cui il governo Netanyahu gestisce un gabinetto di guerra per capire se aprire il fronte nord. Hezbollah, intanto, ha colpito Safed, che non è solo la cittadina dove è nato Abu Mazen, ma è anche la città del misticismo ebraico, a cui è sempre stato reso omaggio.



Perché è importante sottolineare anche questa azione militare?

Un bombardamento di questo tipo nelle comunità del nord significa che non si può tornare a vivere lì. Il primo settembre in Israele e in Palestina corrisponde al ritorno dei bambini a scuola, ma in queste condizioni 400mila bambini non possono farlo, né nel nord, né nel resto del Paese. Questo indica che, se Netanyahu non riporta le comunità a vivere nelle loro case nella parte settentrionale di Israele, la sua immagine di difensore della sicurezza di Israele non collima più con la realtà.

Quello con il Libano diventa il primo fronte per lui?

Gli sfollati sono anche nel sud, nella fascia intorno a Gaza. Netanyahu ha un problema di consenso che non riguarda solo le manifestazioni affollate del sabato sera per liberare gli ostaggi: c’è una maggioranza silenziosa che deve sopportare quasi un anno di guerra su Gaza, l’insicurezza, gli sfollati, e un’economia che non funziona, non solo a causa della crisi del turismo.

Israele, tra l’altro, ha sempre affrontato guerre più brevi: questa è la più lunga?

Sì, è la più lunga ed è pure l’ennesima guerra che perde: è dal 1967 che non vince. Non lo ha fatto nel 1973, nel 1982 e nemmeno nel 2006. Questo ha delle implicazioni dal punto di vista delle forze armate israeliane: occorre prestare attenzione soprattutto a quanto accade in Cisgiordania. Non è solo l’esercito che, a Tulkarem, Jenin, Nablus, come a Gaza, distrugge le infrastrutture civili delle città: fornisce anche supporto ai coloni che distruggono uliveti e cercano di espellere le comunità palestinesi dai villaggi. Questa situazione pone una domanda: quanto sono omogenee le forze armate? Chi rappresentano?

Gli Houthi dicono che Israele deve aspettarsi degli attacchi in occasione del 7 ottobre. L’anniversario rivitalizzerà la resistenza a Israele?

Gli anniversari sono sempre momenti molto delicati, ma il nodo da sciogliere rimane come Netanyahu gestisce la questione della sicurezza. In questo contesto c’è anche il problema degli Stati Uniti, che non riescono a sganciarsi da Israele: anche la vicepresidente Harris non ha intenzione di sospendere l’invio di armamenti, sui quali invece si sta interrogando Londra con il governo Starmer. Gli Stati Uniti assumono ancora una volta il ruolo di difensori della sicurezza di Israele, come già avvenuto in occasione dell’attacco iraniano seguito al blitz israeliano al consolato di Teheran a Damasco. Allora gli americani sono intervenuti con Patriot, navi e basi militari in Giordania. Questo dice già molto sul fatto che Israele non riesce a difendersi da solo.

Anche sul fronte del Libano ci sono segnali di un possibile inasprimento del conflitto?

Israele bombarda con molta più intensità il Libano di quanto Hezbollah attacchi Israele: colpisce il Libano quasi ogni giorno e non ha mai smesso di bombardare obiettivi militari anche all’interno della Siria. Questa presenza in Libano e Siria non può non provocare un’escalation.

Ma qual è la questione cruciale di tutta questa situazione?

C’è un solo modo per far cessare questi attacchi: gli attori della vicenda regionale hanno detto chiaramente che tutto finirà quando ci sarà un cessate il fuoco a Gaza. Lo chiedono tutti. Il vero nodo è questo: è come avere un elefante nella stanza e fare finta di non vederlo.

(Paolo Rossetti)

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