In un passaggio che non ha precedenti in 71 anni di storia, Israele è alle soglie del terzo voto anticipato in meno di un anno, mentre il premier in carica ad interim, Benjamin Netanyahu, è stato formalmente incriminato per sospetta truffa e corruzione in tre casi di scambio di influenze con magnati e  grandi gruppi media. Dopo dieci anni di regno quasi incontrastato da parte di “King Bibi”, l’intero scacchiere politico interno israeliano è in violento sommovimento mentre è messo alla prova lo stesso modello di democrazia parlamentare.



Il presidente della Repubblica Reuven Rivlin (del Likud, la stessa formazione di centrodestra del premier) l’altra sera si è visto riconsegnare l’incarico di formare un nuovo governo dal generale Benny Gantz, leader della formazione progressista “Blu e Bianco”, dopo l’esito “impiccato” delle elezioni dello scorso settembre.



Queste si sono tenute appena cinque mesi dopo un round elettorale che aveva confermato a sorpresa e a fatica la premiership di Netanyahu. Bibi stesso era stato incaricato per primo – come premier uscente – ma aveva presto dovuto gettare la spugna. Gantz, dal canto suo, è l’ultimo esponente di una lunga stirpe di generali-premier portatori nella vita pubblica israeliana di tendenziali istanze laico-progressiste, da tempo in conflitto più aspro con l’affermazione crescente dei partiti del sovranismo-fondamentalismo religioso, sostenuti dalle ondate immigratorie dell’ortodossia ebraica.



Due passaggi ravvicinati per le urne non sono stati comunque sufficienti a Gantz per ribaltare gli equilibri alla Knesset. Dove i risultati del voto di settembre disegnano chiaramente uno stallo: Blu e Bianco controlla 33 seggi su 120, il Likud 32 (entrambi i partiti-guida hanno registrato cali rispetto ad aprile); i rappresentanti degli arabo-israeliani sono balzati da 10 a 13; quattro partiti della destra ortodossa si dividono 31 seggi (con un rafforzamento del nazionalista Avigdor Lieberman, finora alleato di ferro del Likud) ; mentre due partiti di estrema sinistra non vanno assieme oltre gli 11 parlamentari.

Le leggi e prassi costituzionali israeliane consentono, in teoria, altre tre settimane per nuovi tentativi, ma lo scetticismo prevale. Forzando ai limiti il suo mandato – per legge largamente rappresentativo – Rivlin aveva suggerito un governo di coalizione nazionale attorno ai due principali partiti, con un meccanismo di rotazione della premiership. Ma la forza del modello israeliano di democrazia parlamentare – refrattario a ogni ipotesi di forzatura “istituzionale” – sembra aver avuto per ora la meglio. E il presidente, ieri, non ha potuto far altro che certificare un bivio: o dal parlamento prende forma una maggioranza o altrimenti Israele non può che tornare presto alle urne.

Non è la prima volta che la politica israeliana si trova a fare i conti con fatti corruttivi: il centrista Ehud Olmert, quattro anni fa, ha subìto condanne per frode, abuso di fiducia e corruzione. Ma non era più in carica da tempo, il Paese non era senza governo e la magistratura non era entrata a orologeria – almeno oggettivamente – in una grave crisi politica.

È vero che la stella di Netanyahu ha smesso di brillare da tempo e la paralisi corrente è causata anche dalla sua indisponibilità a farsi da parte: almeno fino a ieri. Tuttavia l’ipotesi di “coalizione nazionale” ha dovuto fare i conti con molti altri muri e voragini dentro la politica israeliana. Lieberman, anzitutto, ha abbandonato il ruolo di tradizionale garante di Netanyahu a destra e ha contribuito a bloccare il tavolo confermando la pregiudiziale etnico-religiosa contro gli arabo-israeliani, malvisti come possibili supporter di Gantz.

L’escalation elettorale della Joint List, dal canto suo, è in buona parte riconducibile alla svolta costituzionale in direzione etnico-sovranista maturata alla Knesset nell’estate 2018: quando la maggioranza composta dal Likud e da vari partiti della destra religiosa e nazionalista ha approvato una nuova basic law in base alla quale “Israele è lo Stato nazionale degli ebrei”. Solo questi ultimi hanno diritto all’auto-determinazione nazionale, mentre all’arabo viene assegnato uno status differenziato rispetto all’ebraico, unica “lingua nazionale”. Il governo (ogni governo) viene “incoraggiato” a perseguire l’“interesse nazionale” dell’“insediamento ebraico nel Paese” (tutto il Paese, compresa la West Bank palestinese). Il passo che è stato oggetto di nuove polemiche: sia all’interno di Israele, sia a livello internazionale.

La fase più recente dell’era Netanyahu, d’altronde, è stata caratterizzata dal saldarsi di un’alleanza sempre più stretta fra governo israeliano e destra repubblicana statunitense. L’episodio-svolta risale all’inizio del 2015: quando il premier israeliano volò a Washington appositamente per tenere un discorso alle sessioni unite del Congresso sulle sanzioni all’Iran (tema rimasto di scottante attualità). L’invito era venuto dai leader repubblicani del Campidoglio e aveva ostentatamente escluso da ogni protocollo la Casa Bianca democratica di Barack Obama. Il feeling si è ulteriormente consolidato con l’avvento di Donald Trump e l’intesa strategica fra “America First” e “Israel First” (“prima la sicurezza dello Stato di Israele”) ha prodotto un nuovo strappo proprio nelle ore in cui la crisi politica israeliana tornava ad avvilupparsi.

L’amministrazione Trump – dopo aver riconosciuto Gerusalemme come capitale legittima di Israele (suscitando nuove e aperte preoccupazioni anche da parte della Santa Sede) – ha infatti appena annunciato di non giudicare più gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori palestinesi in situazione di “violazione al diritto internazionale” (come invece continua a dichiarare una risoluzione dell’Onu in vigore da 52 anni). Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha dovuto negare con forza che la presa di posizione sia stata in qualche modo legata all’intento di condizionare l’impasse politica di Gerusalemme: che cioè Trump abbia voluto riconfermare in modo palese il suo endorsement a un leader considerato amico come Netanyahu (come ha fatto in agosto, in occasione del “ribaltone” del governo italiano, appoggiando in modo mirato “Giuseppi” Conte).

Ora “Bibi” sembra fuori gioco e sembra quindi venir meno lo scenario di un presidente sovranista a Washington e di un premier sovranista a Gerusalemme ancora in supporto reciproco nelle rispettive campagne elettorali. Ma il prossimo capitolo della storia politica israeliana – sempre al centro di un Medio Oriente instabile e tormentato come non mai – rimane tutto da scrivere.

Il pressing giudiziario sarà decisivo nell’evitare una nuova verifica elettorale o prevarrà il primato della sovranità democratica? Con o senza una chiara affermazione elettorale, Gantz riuscirà infine a installarsi sulla poltrona che fu anche di Yzhak Rabin, lui pure capo di stato maggiore e poi premier laburista? Anche per Israele sembra comunque suonare l’ora di una resa dei conti storica: simboleggiata dal confrontation fra il radicalismo nazionalista e religioso dei coloni nei territori e il dinamismo globalista della “Tel Aviv valley” ribollente di capitalismo digitale.