La decisione del governo israeliano di limitare l’accesso alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme durante il Ramadan è stata motivata ufficialmente con eccezionali ragioni di sicurezza, benché – secondo indiscrezioni – gli stessi apparati dell’intelligence abbiano messo in guardia contro nuove e indesiderabili escalation conflittuali al confine con i Territori. È comunque noto come l’ispiratore del giro di vite (che colpisce direttamente 1,7 milioni di cittadini israeliani di fede musulmana) sia stato il ministro per la Sicurezza Itamar Ben-Gvir: il più estremista del gabinetto Netanyahu sul versante del nazionalismo religioso.
Ben-Gvir è da sempre grande sponsor politico dei coloni che da anni occupano unilateralmente porzioni crescenti dei Territori rimuovendo frequentemente con la forza gli insediamenti palestinesi, con una strategia non diversa da quella che Netanyahu e l’esercito israeliano stanno adottando oggi per due milioni di palestinesi di Gaza. Su quattro leader dei “settlers” gli Stati Uniti hanno dichiarato sanzioni paragonabili a quelle che si sono abbattute sugli oligarchi russi fedeli a Vladimir Putin. Nelle ultime settimane Ben-Gvir si è segnalato anche per il tentativo di distribuire armi direttamente ai coloni (trasformandoli in una sorta di milizia politica) e per la repressione di polizia delle manifestazioni organizzate in varie città israeliane a favore di un cessate il fuoco che consenta la liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas. Con il ministro delle Finanze Yoel Smotrich, Ben-Gvir è il fermo suggeritore di una strategia politica incardinata sul mantenimento programmatico dello stato di guerra, con l’effetto di depotenziare la democrazia interna e blindare un governo che già prima del 7 ottobre era accusato di derive autocratiche. “Le elezioni ci saranno solo fra alcuni anni”, ha del resto confermato due giorni fa il premier.
Lungi dall’essere una singola misura di polizia, l’offensiva del governo israeliano su un Luogo Santo di una delle tre religioni abramitiche sembra invece aprire altri fronti nella guerra di Gaza, non meno critici di quelli bellici o geopolitici. Sul tavolo resta il macro-dossier dello status di Gerusalemme, che Netanyahu ha unilateralmente dichiarato capitale di Israele, con l’appoggio degli Usa di Donald Trump e poi di Joe Biden, oggi sotto pressione da settori della comunità ebraica americana nella difficile campagna per la rielezione.
Sotto la cupola dorata della Moschea di Omar, contro tutti i “non israeliti” (anzitutto i musulmani) pare intanto alzarsi un muro impastato di ostilità (di odio?) a sfondo etnico religioso: di natura ultima non così diversa dall’antisemitismo e mosso d’altronde da un’evidente interpretazione estrema del sionismo. La negazione della libertà di culto per gli islamici appare d’altronde coerente con tutti i tentativi di “King Bibi” di cambiare la costituzione legale e materiale dello Stato ebraico Israele in direzione di una “democratura” sovranista: nella quale il credo religioso (principalmente quello praticato delle porzioni più ortodosse, alimentate negli ultimi anni dai “ritorni” dall’ex Urss) diventa l’architrave discriminante della società israeliana e delle sue istituzioni; e la “sicurezza dello Stato ebraico” diviene la priorità pregiudiziale nell’azione di qualsiasi governo.
In attesa degli sviluppi – che si annunciano quasi certamente problematici – non è più impensabile che nella Città Vecchia, il nuovo “fronte religioso” si estenda ora ai Luoghi Santi del cristianesimo, in particolare della Chiesa cattolica. Fra poche settimane si celebrerà la Pasqua e solo pochi giorni fa il governo israeliano, attraverso l’ambasciatore presso la Santa Sede, ha duramente polemizzato con il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, accusato di toni troppo netti e preoccupati sulla crisi umanitaria di Gaza.
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