Osservando la terribile crisi di Gaza dall’Italia – e attraverso lenti puramente politiche – si può essere indotti ad avvicinare il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Silvio Berlusconi nel 2011.

Il premier italiano aveva vinto tre anni prima per la terza volta le elezioni. ma restava chiaramente estraneo e sgradito alla comunità dei leader occidentali: soprattutto a quella via via coagulatasi nei primi anni duemila attorno alla cancelliera tedesca Angela Merkel, al presidente francese Nicolas Sarkozy e infine al presidente Usa Barack Obama. Sempre troppo outsider il Cavaliere: troppo tycoon in un mondo di politici tradizionali. Troppo antagonista (vincente) di Romano Prodi, già presidente “popolare & socialdemocratico” della Commissione Ue. Soprattutto: inguaribile, il grande capo del centrodestra italiano, nel coltivare relazioni spregiudicate con figure non occidentali come Vladimir Putin o il colonnello Gheddafi. Tanto che proprio la decisione dei leader Nato di eliminare il rais libico – per quarant’anni corsaro geopolitico su disparati scacchieri – fu fatale anche a Berlusconi.



Più di un decennio dopo restano in pochi a non credere che nell’operazione speciale Nato contro la Libia – culminata nel linciaggio di Gheddafi – non sia rientrato in qualche misura l’attacco preventivo al debito pubblico italiano: risolto con la neutralizzazione e infine con la rimozione di Berlusconi e l’imposizione all’Italia di un’austerity vicina al commissariamento internazionale. Da allora il Cavaliere non è mai più tornato al potere se non negli ultimi mesi di vita, come semplice parlamentare nella nuova maggioranza di centrodestra.



Ma quando è scomparso, nel giugno scorso, l’impero Fininvest era integro, Forza Italia un partito ancora vitale e la sua personale “guerra dei trent’anni” con la magistratura italiana si era conclusa sostanzialmente a suo favore. Per 12 anni – fossero premier Mario Monti o Mario Draghi, Enrico Letta o Matteo Renzi, Paolo Gentiloni o Giuseppe Conte; abitassero al Quirinale Giorgio Napolitano o Sergio Mattarella – il Cavaliere è sempre stato circondato da garanzie solidissime, anche se evidentemente non scritte: vi fosse il raider francese Vincent Bolloré a insidiare il controllo di Mediaset o la Procura di Milano a concedersi un’estrema sortita con l’inchiesta Ruby.



Traguardata nelle debite proporzioni delle tragedie consumatesi quotidianamente dal 7 ottobre sui due lati del confine di Gaza, la situazione di Netanyahu non sembra così diversa. È un leader molto stagionato e molto personalistico/egemonico per i canoni occidentali. La sua prima esperienza di premier risale al 1996-1999 ed è ripresa dieci anni dopo, per protrarsi poi per ben oltre un decennio (salvo la recente e breve parentesi di Naftaly Bennet, peraltro uno dei suoi innumerevoli delfini). “Bibi” continua a vincere – o comunque a “non perdere” – le elezioni (dal 2019 in Israele se ne sono tenute ben cinque). Come Berlusconi, incarna una leadership di destra (più radicale e sovranista/religiosa di quella del Cavaliere) invisa a molti: all’intellighentsia mediatico-accademica interna e internazionale (compreso il milieu storico della potente comunità ebraica americana); ma anche ai grandi leader occidentali, a cominciare dalla Casa Bianca “dem”.

Nessuno può dimenticare che nel 2015, al culmine della sua parabola, Netanyahu volò a Washington per tenere un discorso al Congresso e ignorò platealmente la Casa Bianca. Lì Obama (premio Nobel per la Pace, impegnato a sostenere le “primavere arabe” e a dialogare con l’Iran) era quasi alla fine del suo doppio mandato, con Joe Biden vice. L’anno dopo s’impose Donald Trump: da sempre amico di ferro del super-premier israeliano, che nel 2016 e 2020 distolse una parte importante dell’ebraismo statunitense dallo storico appoggio ai democrat.

In cambio “Bibi” ne ebbe il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e quindi gli Accordi di Abramo: che rimangono l’unica road map operativa in Medio Oriente. Di fatto era e resta un piano unilaterale, imperniato sull’annessione a Israele di gran parte dei Territori e su forti aiuti economici alla popolazione palestinese; ma ha riscosso e da subito strappato la firma strategica degli Emirati del Golfo. Soprattutto, non è stato poi rinnegato da Biden, che ne ha anzi apertamente appoggiato la sua estensione all’Arabia Saudita del principe Mohammed bin Salman.

L’accelerazione di questi negoziati – sullo sfondo della crisi russo-ucraina – è stata presumibilmente alla base del blitz di Hamas a Gaza: a nome non solo dell’Iran, ma di tutto il mondo islamico più radicale, contrario a ogni “pace” con lo Stato ebraico. Anche al di qua del Giordano, comunque, la prospettiva di un jackpot geopolitico di “Bibi” era indigeribile per quella metà della popolazione israeliana che nell’ultimo anno ha riempito le piazze in un clima di pre-guerra civile, accusando il premier di voler stravolgere la democrazia israeliana, violando anzitutto l’indipendenza della magistratura. Perché – in un classico “format Berlusconi” – la lotta politica nel Paese ha finito per ruotare anche attorno ad alcune inchieste giudiziarie in corso su presunti episodi di illecito da parte del premier fra politica e affari.

All’onda crescente del “Tutto tranne Bibi” non hanno mancato di contribuire anche dinamiche geopolitiche globali. Non è stata diversa da quella di Berlusconi la spregiudicatezza del premier di Gerusalemme nel vendere a 360 gradi il Made in Israel (anche le tecnologie digitali e biomediche della “Tel Aviv Valley”), allacciando un’autonoma diplomazia diretta con Russia e Cina. E nessuno si è sorpreso troppo che Israele abbia mantenuto una postura sostanzialmente neutrale nei confronti dello scontro russo-ucraino.

Sempre fredda con l’israelita Volodymyr Zelensky, Gerusalemme ha lesinato l’accoglienza ai profughi ucraini. Ma è un fatto che un punto di forza del Likud è dei partiti nazionalisti alleati è diventato da tempo l’elettorato ortodosso degli immigrati dalla Russia post-1991. È anche su questo che l’era-Netanyahu ha segnato una rottura generale con i primi decenni dello Stato di Israele: dominati da un ebraismo laico, di matrice europea e statunitense, che aveva nei kibbutz la sua cellula sociopolitica fondante.

Nel frattempo Il principale avversario politico di “Bibi” rimane Benny Gantz: un ex capo di stato maggiore dell’IDF, erede in linea retta di generali-premier di ispirazione laburista come Yitzhak Rabin (assassinato da un estremista religioso alla vigilia dell’avvento di “Bibi”). E nessuno – tanto meno dopo quanto avvenuto a cavallo del 7 ottobre – può dimenticare che alla crescente opposizione/resistenza interna a Netanyahu negli ultimi mesi si erano apertamente associate figure di spicco sia del mondo militare che di quello dell’intelligence. Cioè degli apparati che hanno – abbastanza inspiegabilmente – fallito nel parare la minaccia di Hamas.

Per tutte queste ragioni Netanyahu era un leader sotto fortissima pressione già prima del 7 ottobre. Un premier che ha ormai troppi nemici su troppi fronti aperti (e con la campagna presidenziale Usa in partenza, tuttora incentrata sul confronto Biden-Trump). Può darsi che in questi giorni di attesa incerta e drammatica, “King Bibi” stia meditando una resa condizionata nelle mani di Biden (che forse è subito volato in Israele per sollecitargliele). “Bibi” avrebbe probabilmente meno tempo a disposizione di quanto ne ebbe Berlusconi, che nel 2011 si concesse tre mesi per negoziare con il Quirinale le garanzie della sua exit. Ma non è affatto certo che il premier israeliano accetterà questo endgame politico e personale.

Il fratello maggiore di Bibi, Yonathan, a 36 anni era tenente colonnello delle forze speciali dell’IDF. Nel 1976 gli fu affidato il comando di una missione divenuta leggendaria: la liberazione di 106 ostaggi (in massima parte ebrei) bloccati su un volo Parigi-Tel Aviv, dirottato su Entebbe, in Uganda, da un commando palestinese. Tutti gli ostaggi furono salvati salvo tre. La task force israeliana ebbe un solo caduto: il comandante Netanyahu.

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