Aumentano i suicidi tra i soldati, 28 dei quali si sono tolti la vita nell’ultimo anno, con migliaia di riservisti che hanno smesso di combattere a causa dello stress. Mentre Ben Gvir si scontra con l’Alta Corte di Giustizia e l’ex ministro Yoav Gallant abbandona addirittura il Parlamento. Israele sente il peso della guerra ma continua a combattere sfruttando la situazione di debolezza del suo nemico giurato: l’Iran. Anche le incursioni in Siria, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, mirano proprio a evitare possibili ostacoli della contraerea siriana in vista di un possibile blitz contro Teheran. Nonostante gli indubbi successi militari riportati, la strategia israeliana sarà sempre di massima allerta per evitare attacchi dai Paesi vicini, quelli che ora sembrano scongiurati dopo la caduta di Assad e le sconfitte incassate da Hezbollah. Sembra tuttavia che Hamas si stia riprendendo militarmente a Gaza, segno che la guerra in un modo o nell’altro rischia di continuare.
Secondo i dati dell’IDF nell’esercito israeliano sono aumentati i suicidi: i dati parlano di 10 persone che si sono tolte la vita nel 2023, prima del 7 ottobre, e 28 dopo l’attacco di Hamas. Un segnale che il Paese comincia a non reggere più la guerra?
Non solo le forze armate ma l’intera società israeliana è sotto stress: affrontare uno sforzo bellico di questo tipo, anche su più fronti, significa distogliere le persone dalle loro normali attività lavorative e prestarle al settore militare, e questo mette sotto stress la psiche collettiva e individuale, oltre che il sistema economico. Francamente non mi aspettavo, e con me molti altri, che la società israeliana prolungasse la reazione al 7 ottobre per tutto questo tempo: si pensava che le operazioni a Gaza si sarebbero risolte al massimo nel giro di un paio di mesi. Una situazione che si riflette anche sui singoli soldati: i disturbi da stress post-traumatico li abbiamo visti pure con i militari americani in Iraq e in Afghanistan.
C’era da aspettarselo?
Sì. Probabilmente questa ammissione dell’IDF è una goccia nel mare della verità che sicuramente non viene dichiarata: sappiamo di feriti e di morti, ma siamo proprio certi che il quadro sia esattamente quello, oppure le perdite sono molte più di quanto viene dichiarato e ammesso?
È anche un segnale che si fatica a sopportare questo livello di violenza, nonostante Israele rigetti tutte le accuse di genocidio e di crimini di guerra?
Sicuramente è un danno anche per l’immagine di Israele. Rimangono sempre cifre che fanno impressione. Se si parla di oltre 40mila morti, di bambini che muoiono di freddo, questo non fa bene all’immagine del Paese, nel medio e nel lungo termine. A prescindere che tutto ciò venga poi classificato come genocidio o no. Per l’opinione pubblica, le persone comuni, il dato di fatto è che ci sono migliaia di civili morti. E un militare con la violenza si trova faccia a faccia tutti i giorni.
Gallant, dopo il ministero della Difesa, lascia la Knesset, Ben Gvir si scontra con l’Alta Corte di Giustizia perché gli impedisce di condurre personalmente certe indagini mentre, come ministro, dovrebbe limitarsi a indicare strategie alle forze dell’ordine, e tiene banco ancora il caso Haredi, con gli ultrareligiosi che non vogliono prestare servizio militare. Il Paese è sempre più spaccato?
Israele sta attraversando un momento drammatico, cominciato con il 7 ottobre, e ci sono delle tensioni. Però c’è una cosa in cui gli israeliani sono sempre stati bravi nel corso della storia: andare al di là delle divisioni, nonostante queste si manifestino apertamente. Credo che siamo ben lungi dall’immaginare la disgregazione dello Stato di Israele come qualcuno pensa, se non nel lunghissimo termine.
Ma c’è una contrapposizione maggiore in questo momento, forse anche dovuta al fatto che una situazione del genere non si è mai verificata?
La contrapposizione c’è, anche perché è iniziata prima del 7 ottobre, con le proteste per la riforma della giustizia. E Netanyahu è sempre stato un personaggio molto controverso, ma non vedo all’orizzonte una disgregazione di Israele, anche se l’estrema destra israeliana sta capitalizzando questa situazione, non fosse altro con l’acquisizione di territori, con l’allargamento degli insediamenti e la mano libera concessa ai coloni.
Tutto questo, tuttavia, non ha cambiato la strategia militare: si continua a bombardare a Gaza, lo so fa contro gli Houthi, e proseguono le incursioni in Siria. Si mantiene la postura aggressiva propria della destra religiosa?
La dottrina militare israeliana è sempre stata praticamente la stessa da quando lo Stato era in corso di fondazione, non è cambiata. Forse al massimo, come ha rivelato il New York Times recentemente con una ricerca, si sono allargate un po’ più le maglie per l’uso della violenza, aumentando il margine delle vittime civili ritenute accettabili.
In cosa consiste questa dottrina?
Si basa sull’affermazione che alla violenza si contrappone una violenza non uguale, ma molto superiore, per avere un effetto di deterrenza. A un missile lanciato dallo Yemen su Tel Aviv corrisponde una campagna massiccia di bombardamenti. Per quanto riguarda la Siria, invece, la situazione è diversa: Damasco è inerme, incapace di rispondere, ma è in mano a forze che preoccupano non solo Israele, ma anche l’Egitto e altri Paesi dell’area, anche se non lo danno da vedere. Sarebbe stato ingenuo non sfruttare questo vuoto di potere per distruggere la macchina bellica siriana, prima che il nuovo potere possa assestarsi e magari addestrare generazioni di jihadisti che utilizzino armi molto più avanzate. Per quanto dia delle garanzie, il passato di HTS non contribuisce a far stare tutti tranquilli sul fronte israeliano. Colpire le strutture militari in Siria, per di più, permette a Israele di aprire un corridoio aereo, senza minacce missilistiche o di contraerea, per andare a colpire in Iran senza troppe incognite.
Secondo il Jerusalem Post, Hamas sta tornando nella Striscia di Gaza, forse anche grazie a un nuovo reclutamento. È propaganda per giustificare altri attacchi israeliani o l’organizzazione palestinese sta cercando di rialzare la testa?
Hamas in realtà non è mai scomparsa dalla Striscia e non ha mai smesso di tendere agguati o lanciare missili su Israele, spuntando in zone in teoria completamente bonificate. Detto ciò, è normale che una campagna militare con tutte queste vittime potesse creare un terreno fertile per Hamas e quindi la possibilità di un reclutamento maggiore. Non stento a credere, cioè, che Hamas sia viva e vegeta. Se mai scomparisse, comunque, non sarà in termini ideologici.
Quindi che scenario abbiamo davanti? Quali sono gli obiettivi di Israele a questo punto?
Israele sta stringendo le maglie sulla Cisgiordania, sui territori occupati, obbligando Abu Mazen a essere più duro con le organizzazioni militari che agiscono nell’area: Jenin è praticamente sotto assedio da parte dell’ANP. E Gaza è rientrata sotto controllo israeliano. Ma non è tanto il fronte interno quello in cui Israele ha raggiunto più obiettivi.
Qual è, quindi, il vero successo di Israele?
La sconfitta cocente che ha subito l’Iran, che si è dovuto ritirare in Siria e ha visto Hezbollah indebolirsi in Libano.
E adesso gli israeliani cosa vogliono fare?
Credo che vorranno mantenere questa egemonia e superiorità militare come deterrente contro la minaccia non tanto di Hamas, quanto di un attacco iraniano.
La strategia è sempre quella della guerra permanente?
La guerra in Medio Oriente non è mai finita, dal 1948: niente di nuovo sotto il sole.
(Paolo Rossetti)
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