Politica e affari. Impossibilità di scrollarsi il peso della destra e incapacità di coinvolgere i partiti che rappresentano gli arabi israeliani. C’è veramente di tutto e di più nell’intreccio che sta portando Israele e i suoi elettori alle terze consultazioni politiche in meno di un anno. Dopo quelle di aprile e settembre di quest’anno, il prossimo appuntamento sarà per marzo del 2020.



Innanzitutto, per l’incapacità della classe politica. Cominciamo dai problemi all’interno del principale partito di centrodestra: il Likud. I numeri, cioè gli eletti in Parlamento, parlano chiaro. Nel 2019 il Likud ha perso la capacità di formare la tradizionale maggioranza di centrodestra, che si fondava appunto sul partito guidato da Bibi Netanyahu, su quello guidato dall’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman e sui piccoli e decisivi partiti religiosi. Da quella maggioranza si era sfilato, all’inizio del 2019, proprio Lieberman, che sia pure da posizioni di destra si fa interprete di  un sentimento forte nell’opinione pubblica israeliana: la richiesta di porre fine ai privilegi dei religiosi ortodossi, in primo luogo l’esenzione dalla leva militare.



L’intransigenza di Lieberman è stata ripagata dalle urne, che hanno via via premiato sempre più la sua formazione politica. Davanti a questa rivoluzione politica all’interno della destra israeliana, Netanyahu ha reagito pragmaticamente, ma non fino in fondo.

Ha  preso atto del calo dei consensi del suo partito, ha proposto addirittura un governo di coalizione nazionale, insieme al leader del nuovo partito di centro-sinistra, l’ex generale Benny Gantz. Si è invece rifiutato di tagliare il rapporto con i partiti religiosi, che lo hanno sostenuto nei dieci anni passati. Di fronte alla richiesta di Gantz e anche del presidente di Israele, Rueven Rivlin, di formare un nuovo e possibile governo di coalizione nazionale, ma senza i partiti religiosi, la risposta di Netanyahu è stata sempre la stessa: la nuova coalizione di governo deve assolutamente comprenderli.



Sul fronte del centrosinistra, l’incapacità politica si è manifestata invece nel rapporto contraddittorio con l’area dei partiti degli elettori arabi israeliani. Qualche timido coinvolgimento nel dibattito per la formazione di un nuovo governo, ma nel contempo la riaffermazione che non è possibile andare oltre. Il massimo dell’impegno è stato posto nella costruzione di un governo di coalizione nazionale, ma volendo evitare le conseguenze delle vicende giudiziarie che hanno investito Netanyahu e che potevano affossare un nuovo esecutivo. In definitiva, Gantz ha cercato di impedire che  il suo partito “Blu e Bianco” venisse percepito dall’opinione pubblica come l’ultimo puntello di Netanyahu di fronte alle indagini della magistratura.

Ecco allora gli affari di Netanyahu. Più esattamente, le sue amicizie importanti ai fini non tanto dell’arricchimento personale, quanto del controllo dei mezzi di informazione. Nella decisione del procuratore generale di Israele, Avichai Mandelblit, di rinviare  a processo Netanyahu c’è uno spaccato di un cattivo modo di intendere la politica, l’informazione e il rapporto con i magnati dell’industria. Nelle motivazioni del Procuratore generale, assunte “con dolore, in un giorno triste per Israele e per me”, non c’è solo l’accusa al premier di aver ricevuto doni ingenti dal magnate di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario australiano James Packer, in cambio di alcuni favori.

C’è soprattutto (le registrazioni di alcune conversazioni sarebbero eloquenti) il tentativo di manipolare, blandire e in definitiva controllare il mercato editoriale israeliano e l’informazione nei confronti del primo ministro. Si giunge ad architettare un piano per convincere il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ad assumere una informazione più benevola verso il premier, in cambio di aiuti alla diffusione e maggiori introiti pubblicitari. Infine, ci sono le decisioni di Netanyahu, come ministro delle Telecomunicazioni, a beneficio di Shaul Elovitch, l’uomo dietro il colosso di internet Bezeq. Azioni che si sarebbero spinte a sostituire responsabili del ministero considerati non acquiescenti. Tutto questo in cambio di una copertura mediatica positiva per Netanyahu sul sito web Walla News. Sono tutte accuse che si riferiscono al rapporto tra politica e informazione all’interno di Israele. Tuttavia è altrettanto evidente come il governo israeliano e i suoi sostenitori si impegnassero anche sul fronte dell’informazione internazionale su Israele.

Netanyahu ha definito queste accuse una caccia alle streghe, un abuso degli investigatori, uno strumento per sovvertire il governo. Il procuratore Mandelblit lo ha comunque rinviato a giudizio per corruzione, frode e violazione della fiducia. Per la legge israeliana un ministro indagato deve dimettersi, ma non è lo stesso per il premier. E Bibi ha annunciato che non si dimetterà da primo ministro. Potrà poi chiedere l’immunità parlamentare, ma dovrà sottoporsi al voto dei deputati della Knesset. E se anche  il Parlamento la rifiutasse, il processo potrebbe andare avanti per anni, tra le assenze giustificate dell’imputato e i rinvii inevitabili.

C’è tuttavia un altro luogo, la Corte penale internazionale, con sede all’Aja, dove non solo Netanyahu, ma anche una parte della dirigenza politica israeliana (Gantz compreso) potrebbe essere chiamata a rispondere per crimini di guerra commessi nei Territori palestinesi occupati. La procuratrice capo Fatou Bensouda, giurista gambiana, ha detto che esistono gli elementi per avviare un’inchiesta. Israele non aderisce alla Corte, ma l’Autorità nazionale palestinese sì. Netanyahu ha subito affermato che i palestinesi non hanno uno Stato autonomo per poter avanzare alcuna richiesta. Gli Stati Uniti, è noto, non aderiscono alla Corte penale internazionale, e Mike Pompeo, Segretario di Stato statunitense, si è affrettato a condividere il giudizio di Netanyahu. La lobby parlamentare americana pro Israele, in vista del voto al Senato sull’impeachment a Donald Trump, si blandisce anche così.