Israele è il primo paese al mondo a dichiarare un secondo lockdown. Il contagio è infatti tornato a crescere a cifre che superano anche quelle del primo lockdown, oltre 4mila contagi per due giorni di fila e oltre 500 morti, più della metà da agosto in avanti. E’ il ritorno del virus che molti temevano, la cosiddetta seconda ondata? No. Come ci ha spiegato in questa intervista Filippo Landi, ex corrispondente della Rai in Israele e oggi inviato di Tg1 Esteri, è tutta colpa della pessima gestione del governo israeliano di fronte alla prima ondata del Covid-19: “Allora ci furono fortissime proteste degli ebrei ortodossi che lamentavano anche la chiusura delle sinagoghe e che disattesero completamente le misure di sicurezza. Ma soprattutto Israele mise in atto una politica di superiorità rispetto al resto del mondo, dichiarando addirittura a marzo di aver già completato un vaccino, cosa che fece salire alle stelle le aziende farmaceutiche nelle Borse. Non solo il vaccino non venne mai prodotto, ma il lockdown venne anche sospeso per venire incontro agli ebrei ultraortodossi e alle richieste delle aziende”.



Israele è il primo paese al mondo a essere costretto a fare un secondo lockdown. Perché si è arrivati a questo punto?

Il motivo di questa scelta risiede nella sottovalutazione che il paese stesso, dai vertici governativi alla società civile, ha avuto nei confronti del Covid. A inizio contagio, a marzo, come in Italia, si sono verificate due cose. Si è puntato a far emergere una capacità israeliana di fronteggiare questa emergenza sanitaria, puntando su livelli di ricerca e organizzazione che altri paesi, secondo loro, non avevano. A marzo si parlava già di un vaccino israeliano in preparazione. Nel breve termine questo ha portato in Borsa a rialzi stellari delle società farmaceutiche. Poi però non si è visto nulla di concreto sul fronte vaccino.



Ora cosa può succedere?

Viene “gonfiata” la cosiddetta “via israeliana alla guerra al Covid”, come appare anche dai titoli a caratteri cubitali su molti giornali italiani.  Questo fatto esprime la capacità dell’ufficio stampa governativo di veicolare all’estero una presunta capacità organizzativa su cui il tempo ha fatto giustizia. Non solo una sottovalutazione, cosa comune a tanti paesi, ma anche una spregiudicatezza delle aziende e del governo, che hanno fatto credere all’opinione pubblica israeliana che in Europa e in Italia non si era imboccata la via giusta, ma che la via giusta era quella di Israele.



Un atteggiamento di eccessiva supponenza?

Sì, esatto, anche se una parte dell’opinione pubblica israeliana – e ne ho riscontri in molti rapporti personali -, mostrava come erano molto attenti a quello che si stava facendo in Italia, cioè al blocco totale.  Questo colpiva molti israeliani. 

Ma non hanno seguito il nostro esempio, vero?

Hanno deciso un primo lockdown, ma è successo qualcosa di grave e incomprensibile. Una parte della società, cioè i religiosi ortodossi a Gerusalemme e alla periferia di Tel Aviv, le zone più laiche del paese, hanno disatteso le indicazioni sanitarie che venivano dalle autorità, che all’inizio erano impersonate dal ministero della Difesa, come fosse una emergenza anche militare. Non aver portato le mascherine e aver rifiutato l’isolamento ha provocato una prima grande ondata, che però non è stata ben compresa.

Di chi la colpa principale?

Delle pressioni del mondo religioso e di quello del commercio, che hanno fatto sì che si riaprissero le attività, sperando che la situazione fosse sotto controllo. Non è stato così.

Questo secondo lockdown coincide con l’inizio delle festività religiose del Capodanno ebraico. Ci saranno ancora contestazioni da parte degli ebrei ultraortodossi?

In realtà, no. Per chi conosce Israele sarà invece una via per rendere più semplice l’applicazione del lockdown. Molta gente in questo periodo non lavora, in passato andava in ferie all’estero, ma oggi questo non è possibile, e molti rimanevano in casa comunque. Da punto di vista della sicurezza le festività rappresentano una via morbida per aiutare le autorità sanitarie, fermo restando che le sinagoghe resteranno chiuse.

Una curiosità. Nessuno parla di Gaza e dei Territori palestinesi. Data la vicinanza con Israele, come si presenta la situazione?

Il contagio è del tutto israeliano, non si può dire sia una epidemia proveniente dai territori palestinesi, cosa che mostra l’incapacità del governo israeliano di affrontare con coerenza la crisi, almeno fino a oggi. Sul fronte di Gaza e dei Territori palestinesi è evidente come l’aumento dei contagi, anche se fortunatamente non drammatico, mostra tutte le carenze della sanità, in particolare a Gaza, dove ci sono pochi medicinali, poche terapie intensive e pochi respiratori.

Come ne esce da questo disastro Netanyahu?

Netanyahu ne esce in un modo curioso. Il governo che lui aveva sponsorizzato e poi realizzato con il suo avversario, il generale Gantz, era un governo finalizzato all’annessione definitiva di parte dei territori palestinesi, ma è stato detto che era anche un governo di emergenza per fronteggiare il Covid. Era uno schermo, oggi è diventata realtà. Sarà infatti il ministro della Difesa Gantz a disporre la presenza dell’esercito, affinché le direttive sanitarie vengano rispettate. E questo rende il governo effettivamente un governo di emergenza.

(Paolo Vites)

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