Il 13 dicembre 2004, Yehiel Hazan, membro del partito Likud e leader influente della lobby dei coloni in Israele, tenne un discorso alla Knesset, il parlamento israeliano, dove descrisse gli arabi come “lombrichi”, sia che si trovassero in superficie che sottoterra. Questa dichiarazione, estremamente controversa, non ha portato alla sua esclusione dal partito o dalla Knesset, sollevando interrogativi sul perché azioni simili non siano state intraprese, come probabilmente sarebbe successo in altri contesti politici e parlamentari occidentali. La situazione suscita ulteriori domande riguardo alla possibile reazione del governo israeliano se un membro del parlamento di uno dei 190 Paesi ONU avesse rilasciato un commento simile riguardo agli ebrei.
Alcuni studiosi europei hanno sottolineato l’esistenza di vari slogan e messaggi promossi in Israele che riflettono sentimenti anti-arabi. Questi messaggi includono slogan su manifesti e adesivi come “Espulsioni = pace + sicurezza”, “Allontanare il nemico arabo”, e “Zero arabi = zero attentati”, tra gli altri, che indicano un desiderio di eliminazione degli arabi per garantire la sicurezza. Piaccia o non piaccia, in Israele esiste un discorso pubblico e generalizzato di natura razzista, sostenuto da partiti politici con rappresentanza parlamentare. Questo discorso si concentra su un approccio di sopraffazione ed espulsione nei confronti dei palestinesi e si nutre di sentimenti profondamente radicati come la paura e il desiderio di vendetta. Tuttavia bisogna rendersi conto che esiste anche un’altra Israele.
Shulamit Aloni (1928-2014), ex ministro della Cultura israeliano e parte dell’opposizione di sinistra, criticò duramente Israele definendolo uno Stato di apartheid, un’accusa che riteneva ignorata fino a quando non sarebbe stata sollevata dai media internazionali. Numerosi israeliani, profondamente critici verso la politica di apartheid, ricordano quello che successe nel maggio 2004, ossia le demolizioni operate dall’esercito israeliano a Rafah, in Palestina, e l’immagine di un’anziana donna palestinese che cerca tra le macerie i suoi vestiti. Queste narrazioni evocarono in Yosef Lapid (1931-2008), allora ministro della Giustizia, dolorosi ricordi di sua nonna, vittima del nazismo. Avraham Burg, ex presidente della Knesset per il partito laburista e persona di profonda fede, ha lamentato la perdita dei valori morali e di giustizia su cui si fondava il sionismo, auspicando un’evoluzione verso un giudaismo più aperto e rispettoso dell’altro. Queste critiche si riflettono anche nei media israeliani, noti per il loro approccio aperto e critico nei confronti del conflitto in Medio Oriente, un dibattito che si contraddistingue per la sua vivacità e pluralità.
Le azioni militari israeliane, come l’avanzata di tank a Nablus o i sorvoli di elicotteri su Gaza, possono essere accolte con favore da alcuni membri del governo israeliano; tuttavia, nel mondo musulmano, tali immagini sono percepite come l’espressione di un conflitto più ampio tra il popolo ebraico e il mondo musulmano, con il sostegno degli Stati Uniti. Naturalmente anche la stampa israeliana è variegata: il quotidiano Yediot Aharonot, nonostante non sia incline a posizioni di sinistra, il 19 novembre 2004 diffuse immagini che ricordano quelle di Abu Ghraib, mostrando soldati israeliani che posano in modo grottesco accanto a corpi di palestinesi deceduti. Questa pubblicazione avvenne un giorno dopo l’annuncio delle autorità legali riguardo all’accusa verso un comandante per aver sparato a una ragazza di 13 anni vicino a un checkpoint nella striscia di Gaza, uccidendola mentre si recava a scuola.
Esistono invece quotidiani chiaramente filogovernativi come il quotidiano Haaretz che ha trattato l’uccisione di bambini in modo provocatorio, sottolineando che questo fatto non era più visto come un grave problema. Secondo il giornale, ad ogni adulto israeliano ucciso corrispondevano tre vittime palestinesi, mentre per ogni bambino israeliano morto cinque bambini palestinesi venivano uccisi, mettendo in dubbio la spiegazione ufficiale che tali morti fossero il risultato di errori accidentali dell’esercito.
In Israele, la presenza di un’estrema destra che esercita pressioni è innegabile, così come non si può ignorare l’esistenza del razzismo all’interno dello Stato. Tuttavia, è cruciale riconoscere che non tutti gli israeliani condividono queste visioni estremiste. Esistono molti cittadini e gruppi che attivamente si oppongono a tali ideologie, evidenziando così la diversità di opinioni presenti nella società israeliana. All’interno della comunità, vi sono molte associazioni che criticano apertamente le azioni del governo, ritenendo che queste si allontanino dai principi fondamentali su cui si fonda lo Stato. Un esempio significativo è quello di Nurit Peled, la cui figlia è stata vittima nel 1997 di un attacco suicida palestinese. Invece di rivolgere la sua rabbia verso i palestinesi, Peled accusò l’allora primo ministro Netanyahu di essere responsabile della tragedia, a causa delle politiche oppressive e disumane che, secondo lei, contribuirono a creare le condizioni per l’attacco.
Il movimento “Peace Now” (Shalom Akshav), uno dei più importanti e influenti movimenti per la pace, si impegna attivamente contro l’occupazione e il dominio esercitato sul popolo palestinese, che considera dannoso per la società israeliana stessa. Basandosi sui valori di democrazia e sionismo, “Peace Now” monitora e denuncia l’espansione delle colonie nei territori occupati, con l’obiettivo di promuovere una pace duratura e giustizia per tutti.
In Israele esistono diversi gruppi di obiettori di coscienza che hanno scelto di non partecipare ad attività militari nei territori occupati, a dimostrazione di un dissenso interno rispetto alle politiche governative. Tra questi, “Ometz Lesarev” (Coraggio di rifiutare) unisce soldati e riservisti che declinano il servizio nei territori occupati, inclusi 27 piloti e 13 ufficiali con ruoli specifici. Il “Forum dei parenti dei refusnik” supporta giovani reclute che scelgono di non servire come soldati occupanti, mentre “Yesh Gvul” (C’è un limite) è il più anziano fra questi collettivi, e si rifiuta di servire finché l’esercito opererà come forza occupante.
Oltre a questi movimenti, esistono associazioni israeliane e israelo-palestinesi che si battono per la pace, contrastando la narrativa di destra secondo cui il conflitto sarebbe puramente etnico. Tra questi, l’ “Alternative Information Center” (AIC) offre una piattaforma di dialogo israelo-palestinese, il “Bereaved Families Forum” riunisce famiglie israeliane e palestinesi colpite dal conflitto, “Gush Shalom” (Blocco della pace) promuove il ritiro dai territori occupati dal 1967, e “Ta’ayush” (Vivere insieme) vede arabi ed ebrei israeliani collaborare in azioni di solidarietà nei confronti dei palestinesi nei territori. “B’tselem” si dedica alla difesa dei diritti umani nei territori occupati e ha distribuito videocamere ai palestinesi per documentare abusi militari. Il “Comitato israeliano contro la demolizione delle case” si oppone alla distruzione di abitazioni palestinesi, “Physicians for Human Rights” e “Rabbis for Human Rights” lavorano in ambito sanitario e religioso per i diritti umani, mentre “Zochrot” mira a preservare la memoria dei villaggi palestinesi distrutti nel 1948.
Infine, la “Coalizione delle donne per una pace giusta” unisce associazioni femminili israeliane e palestinesi, inclusa “Women in Black” che protesta contro l’occupazione; “New Profile” si impegna per la demilitarizzazione della società israeliana e “Machsom Watch” monitora gli sbarramenti militari, dimostrando la varietà e l’impegno civile dentro la società israeliana verso il conflitto. Non sono pochi gli israeliani che rimangono impegnati a difendere i diritti dei palestinesi e i principi di legalità, ritenendo questa la via per preservare la propria esistenza in una società complessa e piena di contraddizioni. Benché la maggior parte degli israeliani si dica favorevole a una soluzione a due Stati e desiderosa di pace in cambio del ritiro dai territori occupati, dal 2001 al 2006 c’è stata una crescente fiducia nel Likud e nel suo leader Ariel Sharon, nonostante non sembrassero portare verso una facile conciliazione con i palestinesi.
La disillusione verso il processo di pace si è accentuata dopo il fallimento del summit di Camp David, con l’allora primo ministro Ehud Barak che convinse molti israeliani dell’impossibilità di trovare un partner per la pace in Yasser Arafat. Gli attacchi e la ripresa dell’Intifada hanno ulteriormente consolidato questa convinzione, rendendo difficile trovare una via d’uscita dalla situazione di stallo. Nonostante ciò, il terrore degli attentati e la violenza non possono giustificare una mancanza di azione verso la pace, che, benché rischiosa, rimane l’unica alternativa alla catastrofe.
Il continuo allontanamento dalla pace allarga il divario tra il mondo musulmano e l’Occidente, portando a un potenziale scontro di civiltà. Yossi Beilin e Oren Medicks, rispettivamente leader della sinistra israeliana e attivista pacifista, hanno evidenziato l’importanza di un intervento esterno, in particolare europeo, per favorire la pace, poiché Israele, diventato sempre più un paria internazionale ma ancora senza affrontare vere sanzioni, potrebbe non cambiare rotta senza una spinta esterna.
La guerra di Gaza e le elezioni che l’hanno seguita hanno segnato un arretramento del partito della pace in Israele, spostando significativamente l’opinione pubblica verso destra, o addirittura verso un’estrema destra razzista. Il sostegno quasi unanime alla guerra di Gaza tra gli israeliani e il ritorno del Likud al centro della scena politica, insieme alla marginalizzazione di partiti come Meretz, evidenziano una crescente polarizzazione e la difficoltà di perseguire un futuro di pace e riconciliazione.
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