Droni all’attacco su basi americane in Iraq e Siria, Israele che risponde al fuoco anticarri di Hezbollah partito dal Libano, segnali di aggravamento della situazione in Siria, tre leader di Hamas uccisi. Il rischio di un allargamento del conflitto israelo-palestinese è sempre più alto, anche se finora non c’è ancora stato l’episodio scatenante che può far precipitare la situazione. Anche la vicenda del missile sul parcheggio dell’ospedale di Gaza rimane oggetto di discussione senza che si possa sposare definitivamente l’una o l’altra versione, attribuendo le colpe all’esercito israeliano o a un errore della controparte. Neanche la versione che sembra più accreditata ora, quella dell’errore da parte palestinese, può essere presa come oro colato. Anzi.



Il conflitto in questo momento, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSi (Centri studi internazionali), vede schierati da una parte gli Usa e i Paesi sunniti, che vogliono tenere sotto controllo la situazione per evitare l’escalation, e dall’altra Iran, Siria e Hezbollah che invece spingono in direzione opposta, perché si creino le condizioni, cioè, per innalzare la tensione, coinvolgendo le opinioni pubbliche arabe e costringere così anche i Paesi dell’area più riottosi a schierarsi più decisamente contro Israele. Intanto, in attesa di capire quale sarà la vera risposta di Israele all’attacco del 7 ottobre, i bombardamenti su Gaza continuano. Il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant, intanto, ha fatto capire che l’operazione di terra di cui si è tanto parlato potrebbe essere imminente. L’evoluzione della situazione dipenderà soprattutto da come verrà condotta e da quali reazione susciterà. La decisione spetta al gabinetto di guerra israeliano.



Basi americane, in Iraq prima e in Siria poi, sono state attaccate con dei droni: un’azione dimostrativa o un avvertimento serio che fa presagire a cosa potrebbe portare il conflitto israelo-palestinese?

Un attacco su infrastrutture militari statunitensi di per sé ha poco di dimostrativo: viene presa di mira la principale potenza militare al mondo, ma anche l’attore politicamente più importante in Medio Oriente, anche se meno influente rispetto al passato. Dato per verificato l’attacco, va inserito nel contesto del processo negoziale che gli Usa stanno portando avanti. La definizione dello scenario mediorientale oggi è abbastanza netta: Stati Uniti e Paesi sunniti stanno lavorando per una soluzione quanto più pacifica possibile della crisi, per una soluzione contenitiva. Dall’altra parte, invece, ci sono soggetti come Hamas, Hezbollah, Iran e Siria che optano per una escalation. Se gli Usa rispondessero in maniera molto forte ad azioni di questo tipo, una società araba già in ebollizione per quello che sta succedendo in Israele potrebbe porre i governi sunniti in una posizione di difficoltà, esacerbando il conflitto. Al momento gli Stati Uniti stanno facendo l’impossibile per tenere tutto sotto controllo, tanto è vero che hanno ottenuto l’apertura di corridoi umanitari per la popolazione, seppure verso il Sud della Striscia.



Si è parlato anche dell’apertura del valico di Rafah, ma l’Egitto non era contrario per paura che arrivassero troppi profughi?

L’apertura di Rafah è per gli aiuti umanitari, non per le persone.

Si sa chi ha mandato i droni contro le basi Usa?

La paternità è ancora discussa, quindi bisogna essere non cauti, di più. Ricordiamoci della lezione del missile lanciato sul parcheggio dell’ospedale di Gaza. Si può parlare solo quando si ha una ragionevole certezza.

A questo proposito possiamo accreditare la tesi che il missile all’ospedale sia dovuto a un errore di Hamas o comunque che non siano stati gli israeliani?

In generale il fronte degli analisti a livello internazionale è molto polarizzato, anche dall’analisi delle fonti aperte (filmati, foto, audio) non si è ancora affermata una versione unica e condivisa dell’accaduto.

La versione di una eventuale responsabilità di Hamas, quindi, va presa ancora con le molle?

Sì, è così.

Ci sono tanti episodi che fanno presagire un possibile allargamento del conflitto: in Libano, ad esempio, c’è stato uno scambio tra il fuoco anticarro di Hezbollah e il raid di risposta di Israele. Solo una scaramuccia o l’inizio di grandi manovre anche qui? Hezbollah ha sufficiente autonomia dall’Iran per decidere di attaccare Israele senza doverne rendere conto ad altri?

Il grado di autonomia di Hezbollah è relativo. Un’azione in questo momento sarebbe quantomeno concordata. Hezbollah è diverso da Hamas, il legame con Teheran è ombelicale, più solido, se non altro perché entrambi (Hezbollah e Iran) sono sciiti, mentre Hamas è sunnita e questo fa già una bella differenza. L’episodio in Libano per ora si colloca in un contesto ancora sotto controllo.

Anche in Siria c’è fermento: l’Isis avrebbe attaccato l’esercito siriano nella zona a Est di Palmira e punterebbe al controllo di installazioni per l’estrazione del gas nella stessa area. La guerra in quella regione in realtà non è mai finita: chi sono gli attori oggi e come potrebbe essere coinvolto il Paese nel conflitto tra Israele e Palestina?

Sicuramente nell’ultimo mese e mezzo si è vista una ripresa dell’attività tanto dei gruppi ribelli che di quelli terroristici, anche se siamo lontani dall’intensità dei giorni più duri della guerra. Gli attori in campo sono la pletora delle milizie anti-Assad (l’esercito siriano libero e altri) e poi c’è lo Stato islamico. I movimenti jihadisti vedono nella questione palestinese un grilletto per riprendere l’attività in modo più deciso, anche dal punto di vista propagandistico. Se si dovesse riaccendere il conflitto, comunque, dubito che Assad, con i problemi interni che ha, si lanci in un’avventura militare nel tentativo di andare a riprendere il Golan, perché se l’esercito, che non è al 100% delle sue capacità, non riuscisse nell’operazione, lui si indebolirebbe: gli attori interni potrebbero pensare di approfittare di questa vulnerabilità. Non può lanciarsi in un conflitto con Israele su larga scala, l’aviazione di Tel Aviv potrebbe spazzare via con relativa facilità le truppe siriane. Quindi una cosa è far passare miliziani o rifornimenti per un eventuale sforzo militare da parte di Hezbollah, un’altra essere coinvolto direttamente.

Mettendo insieme i fatti recenti in Libano e in Siria l’ipotesi di un allargamento del conflitto allora non è così concreta?

Non è così concreta ma non va sottovalutata. Siamo in Medio Oriente, basta poco per accendere la miccia. L’area è comunque una polveriera. Il fattore da tenere sotto controllo, comunque, è il rapporto tra la volontà dei governi sunniti e la popolazione civile nei loro Paesi. Se la gente scendesse in piazza dicendo: “Non state facendo abbastanza contro Israele”, allora i governi sunniti dovrebbero fare qualcosa che, anche se si trattasse di un intervento minimo, potrebbe causare un effetto a catena.

Nelle ultime ore sarebbero stati uccisi tre leader di Hamas: Jamila Al Shanti, capo dell’ufficio politico di Hamas, Jihad Muheisen, capo delle Forze di sicurezza nazionale della Striscia, Rafat Abu Hilal, leader dell’ala militare dei Comitati di resistenza popolare di Gaza. Può essere questa l’alternativa di Israele all’azione di terra a Gaza, puntare sui leader di Hamas?

Troppo poco. Gli israeliani hanno perso mille cittadini, di cui il 99% erano civili. In relazione a una possibile invasione di terra a Gaza devono evitare la carneficina dei palestinesi con i carri armati e i soldati che sparano nelle strade: non devono mostrarsi al mondo come lupi assetati di sangue. Ma devono anche mostrare una reazione che ripristini il concetto di deterrenza. Altrimenti hanno perso.

Ma come può muoversi Israele tenendo conto di tutti questi elementi?

Innanzitutto può continuare a bombardare come se non ci fosse un domani. Ciò che frena l’operazione di terra sono le trappole che possono incontrare entrando a Gaza e un elemento di tipo politico. Gli Usa sanno che gli israeliani vogliono vendicarsi ma continuano a dir loro che non possono farlo.

Per adesso, insomma, continueranno a bombardare e nel frattempo si vedrà il da farsi?

Sì, poi bisogna tenere conto di tanti aspetti, l’ultimo dei quali è la volontà politica del gabinetto di guerra.

(Paolo Rossetti)

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