Niente siti nucleari o piattaforme petrolifere. Israele ha attaccato le strutture di produzione dei missili che l’Iran aveva lanciato contro Tel Aviv e Gerusalemme. Un’operazione militare che dimostra le capacità aeree israeliane, ma che è limitata rispetto alle ipotesi formulate in sede di previsione. Un blitz, spiega Giuseppe Morabito, generale dell’Esercito, fondatore dell’IGSDA e membro del Collegio dei direttori della NATO Defense College Foundation, concordato in tutto e per tutto con gli USA, al quale ora probabilmente Teheran risponderà attraverso i suoi proxy e non direttamente, per evitare quell’escalation del conflitto che non conviene neanche agli ayatollah. Netanyahu stavolta ha ascoltato gli americani, perché ha sempre bisogno dei loro aiuti militari e finanziari, ma potrebbe non aver rinunciato definitivamente al piano di attacco dei siti nucleari, da attuare magari dopo le elezioni, con un’altra amministrazione USA.
Gli israeliani alla fine hanno attaccato siti militari, in particolare quelli dove vengono prodotti i missili. Come si spiega questa scelta dopo che si erano paventate soluzioni più pesanti militarmente?
Intanto gli israeliani hanno portato l’attacco mentre il segretario di Stato USA Anthony Blinken tornava in America dopo il suo viaggio in Medio Oriente. Questo indica che si è trattato di un’azione assolutamente concordata con gli Stati Uniti. Un attacco ai siti nucleari avrebbe potuto comportare problemi di fallout per la dispersione di materiale radioattivo, mentre colpire le piattaforme petrolifere avrebbe potuto causare inquinamento nel Golfo Persico e un aumento dei prezzi di gas e petrolio sui mercati mondiali. L’esclusione di queste due possibilità è stata decisa insieme agli USA; Blinken ha programmato l’ennesimo viaggio nell’area mediorientale proprio per questo. Il messaggio di Israele all’Iran è chiaro: “Siamo in grado di colpire dove vogliamo”.
I media e le autorità iraniane parlano di danni molto limitati. L’attacco non ha sortito poi questi grandi effetti?
La minimizzazione dei danni era prevedibile; se l’Iran ammettesse conseguenze rilevanti, potrebbe risentirne il supporto interno agli ayatollah. È un messaggio destinato soprattutto all’opinione pubblica interna e non a quella internazionale.
La risposta israeliana, visto che ha preso di mira i missili, è prevalentemente militare e ha quindi una portata politica ridotta?
L’IDF ha dato il via a un attacco selettivo per cercare di impedire un allargamento della guerra. Emblematica, in questo senso, la dichiarazione del portavoce dell’esercito Daniel Harari: “Se il regime iraniano commettesse l’errore di avviare un nuovo ciclo di escalation, saremmo obbligati a reagire”. Se l’Iran risponderà, Israele continuerà i suoi attacchi e, questa volta, non colpirà solo siti di secondo livello, ma punterà al petrolio, alle città e ai centri di potere. L’attacco è stato limitato nello spazio e negli obiettivi perché non si vuole una spiralizzazione della guerra.
Il vicepresidente iraniano Mohammad Reza Aref ha dichiarato che “il potere dell’Iran umilierà i nemici della madrepatria”, ma i toni e i commenti da Teheran non sembrano far intravedere una risposta così pronta. Il regime è restio a rispondere?
Tenderà a non rispondere direttamente, ma cercherà probabilmente di farlo ricorrendo ai suoi proxy, ossia ai gruppi terroristici di Hamas, Hezbollah e Houthi. È improbabile che l’Iran voglia coinvolgersi in un conflitto diretto con Israele; non sarebbe semplice condurlo. Per il momento non si prevede un ampliamento della guerra o uno scontro diretto fra i due Stati.
Gli USA hanno concordato le modalità dell’attacco con Israele, ma hanno concesso qualcosa in cambio di un’operazione limitata? Per esempio il via libera all’IDF nel Nord di Gaza e nel Libano?
L’attacco è stato condotto senza l’aiuto degli americani, anche se, appunto, concordato con loro. Israele ha quanto meno dato credito alle richieste USA di non prendere di mira obiettivi nucleari e petroliferi, ma se vuole ottenere i risultati che si è prefisso deve continuare a tenere sotto pressione Hezbollah e Hamas in Libano e a Gaza, per evitare che possano colpire il territorio israeliano. Tuttavia, queste azioni sono indipendenti rispetto a quanto avvenuto con l’Iran.
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, però, nei giorni scorsi, aveva annunciato un’operazione in grande stile per dimostrare la potenza militare israeliana. Perché, alla fine, hanno concordato con gli USA un attacco limitato, mentre prima Netanyahu sembrava orientato a una risposta di ben altro tono?
Israele ha dimostrato la sua potenza militare, con la quale riesce a colpire quando vuole, ma si è limitato perché gli americani sono il principale alleato e vogliono mantenere buoni rapporti logistici e diplomatici: la capacità di combattimento di Israele dipende molto dai rifornimenti di materiale bellico da parte di Washington e dal suo supporto economico.
Israele è arrivato a un punto tale della guerra in cui il supporto americano è sempre più importante?
Gli israeliani stanno perseguendo i loro obiettivi, e le frequenti visite di Blinken confermano che tutto viene concordato passo per passo. C’è un coordinamento continuo tra ciò che fa Israele e ciò che è reso possibile dagli USA.
Uno degli obiettivi dichiarati di Israele è impedire all’Iran di produrre armi nucleari. Gli israeliani hanno rinunciato ad attaccare i siti dove potrebbero essere realizzate o magari ci penseranno dopo le elezioni americane?
Sicuramente hanno deciso che al momento non era il momento giusto, anche a seguito delle pressioni internazionali. Tuttavia, Trump, nelle scorse settimane, aveva dichiarato di non escludere questa possibilità, sostenendo che “Israele dovrebbe colpire i siti nucleari iraniani”. Un eventuale cambio di indirizzo politico negli USA potrebbe portare a questo scenario, e anche l’Iran ne è consapevole. Non è un’ipotesi da scartare.
L’attacco israeliano ha messo in evidenza una debolezza difensiva da parte dell’Iran?
Esiste un’incapacità di contrastare la potenza israeliana dal punto di vista aereo. Per gli iraniani è difficile fronteggiare decine di cacciabombardieri indirizzati su diversi obiettivi. Non credo, comunque, che Teheran darà seguito a un attacco missilistico diretto, ma probabilmente si affiderà ai suoi proxy. Rispondere direttamente comporterebbe un’elevata probabilità di escalation.
(Paolo Rossetti)
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