Il governo di Israele è spaccato tra chi, come Netanyahu, vorrebbe agire senza ascoltare nessuno, e altri che, invece, vorrebbero tenere conto delle richieste USA. Alla fine, però, l’attacco all’Iran ci sarà: non è nello stile di Tel Aviv rinunciare alla deterrenza. Le ipotesi, spiega Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra, sono diverse. Quella che sta in cima alle preferenze di Netanyahu è l’opzione che prevede di attaccare i siti petroliferi iraniani, mentre per prendere di mira i siti nucleari l’IDF dovrebbe chiedere agli americani bombe abbastanza potenti per intaccare basi che sono in zone particolarmente riparate. Infine, fatta salva la possibilità di un attacco in stile Hezbollah, potrebbero essere presi di mira i pasdaran e le loro sedi. Intanto i soldati israeliani sono tornati a colpire l’UNIFIL e il suo sistema di osservazione, prendendo di mira le postazioni italiane: pensano che indirettamente favorisca Hezbollah, che potrebbe intercettare i rapporti dell’ONU sui movimenti delle truppe israeliane. Ieri il presidente USA Joe Biden ha chiesto a Israele di cessare questi attacchi.
Secondo il Wall Street Journal, l’Iran avrebbe “minacciato” i Paesi del Golfo che hanno rapporti con gli USA di non aiutare Israele, pena ritorsioni; per la Reuters, invece, sarebbero i Paesi arabi ad aver chiesto agli americani di convincere Israele a non bombardare i siti petroliferi iraniani. L’atteso attacco dell’IDF cosa sta muovendo in Medio Oriente?
C’è una specie di balletto di fatti, parole e segnali che vanno interpretati. Quando l’Iran ha lanciato 181 missili su Israele, prima ha avvertito gli USA: nelle guerre aperte non si è mai visto che si avvisi prima di quello che si sta per fare. Ci si batte il petto prima di agire, si fa la voce grossa per mostrarsi aggressivi, ma poi i risultati sono meno influenti delle parole. E lo stesso vale per le voci riportate da WSJ e Reuters.
Ma Israele cosa vuole fare?
Da un lato aveva elaborato una sua gerarchia di obiettivi e quelli più importanti erano i terminali petroliferi. Solo dall’isola di Kharg escono due milioni di barili di petrolio al giorno, che sono la slot machine del regime degli ayatollah.
Sarebbe questa, quindi, la prima opzione?
Netanyahu pochi giorni fa è stato protagonista di un messaggio inusuale rivolto alla popolazione iraniana, nel quale ha dichiarato che il regime iraniano non ha molto tempo davanti a sé. Questo perché sa di poter contare su una colonna all’interno o sull’insoddisfazione di ampi ceti come i giovani e la media borghesia, che sentono troppo stretto il regime e non amano la guerra permanente a cui li ha portati. Un messaggio che contiene segnali importanti: si dice che il regime spende in armamenti da dare a Houthi, Hezbollah e milizie irachene i soldi che potrebbero servire per migliorare le condizioni di vita del Paese. Credo fosse un messaggio per preparare gli attacchi alle piattaforme petrolifere: la cassaforte degli ayatollah è il petrolio.
Questa però sarebbe un’azione che avrebbe dei riflessi su tutta l’economia mondiale. Hanno valutato anche questo?
Certo, si tratterebbe di un’azione che non sarebbe senza conseguenze su scala mondiale, visto che un terzo del petrolio iraniano va alla Cina e sarebbe inevitabile un balzo verso l’alto del prezzo del petrolio e del carburante, con conseguenze su tutti i consumatori, compresi quelli americani che il 5 novembre vanno a votare.
Per questo Biden per prima cosa ha chiesto di non toccare il petrolio iraniano?
L’Iran comunque ha già detto che, se verranno colpiti i suoi siti petroliferi, a sua volta colpirà quelli del Golfo, anche se questo significa battersi i pugni sul petto per mostrarsi più determinato ad agire di quanto si pensi veramente. Per quanto riguarda un eventuale attacco diretto ai siti atomici iraniani, c’è da considerare che la maggior parte sono poco vulnerabili perché ospitati in caverne, realizzati nella roccia, il che obbliga a impiegare bombe più potenti di quelle usate in Libano. Bombe che solo gli americani hanno. In questo momento di braccio di ferro con gli americani, che hanno anche minacciato di sospendere l’invio di armi, Israele dovrebbe chiedere a loro gli strumenti per un’operazione del genere. Altrimenti, l’alternativa non sono gli omicidi mirati, ma le istituzioni delle Guardie rivoluzionarie, i pasdaran, per colpire le forze più militanti.
La riunione di governo israeliano per dare il via all’attacco non ha portato ancora a una decisione in questo senso. Come mai questo rinvio?
Ci sono divisioni interne a Israele. C’è chi vuole agire senza scontentare troppo gli USA e chi, come Netanyahu, dice: “facciamo di testa nostra”. Pochi giorni fa, a Kamala Harris sulla CBS hanno chiesto se Netanyahu è un alleato oppure no. Ha risposto ribattendo che non era la domanda giusta da porre, che in realtà bisogna chiedersi se il popolo americano è alleato di quello israeliano. E la risposta è sì. Una risposta che toglie legittimità a Netanyahu.
Quindi Israele aspetterà un po’ prima di decidere?
Non credo, utilizzano questo momento per lasciare il nemico in disperante attesa di essere colpito, ma penso che prima o poi attaccheranno: non è nello stile di Israele rinunciare alla deterrenza.
Lo scenario più probabile è quello di un’iniziativa contro i pasdaran?
Non escludo l’attacco ai siti petroliferi, magari non in modo così massiccio. Poi c’è un’eventuale terza opzione: ricordiamo la vicenda dei pager di Hezbollah.
Come va inquadrato l’arresto del leader dei pasdaran Ismail Qaani, che sarebbe stato accusato di spionaggio per Israele?
Lo accusano di non essersi accorto che il suo assistente fosse una spia di Israele; questo spiega anche l’infarto che lo ha colpito. C’è la certezza, e questo vale anche per Hezbollah, che Israele conta su talpe ad alto livello per sapere che in quel momento c’è una riunione in cui è presente Nasrallah o che Haniyeh è andato a dormire in tale appartamento.
Vuol dire che c’è qualche crepa nel regime?
A Beirut Israele ha ottenuto molte informazioni: non tutti amano Hezbollah, ci sono le milizie cristiane, i sunniti, i drusi, gli sciiti che non amano Hezbollah. Questo vale anche in Iran, dove la cappa di conformismo è più forte. Ci sono dissidenti che passano informazioni.
Israele intanto ha sparato ad altri due militari UNIFIL. Vogliono veramente lo scontro con l’ONU?
Lo scontro c’è già dal 7 ottobre, tanto che hanno dichiarato persona non grata in Israele Guterres. Tel Aviv non ha mai nascosto che ritiene l’UNIFIL un fallimento protratto nel tempo: doveva smilitarizzare i 28 chilometri che separano il fiume Litani dalla linea blu. Per togliere le armi a Hezbollah avrebbero dovuto confrontarsi militarmente con i miliziani filo-iraniani. L’ONU, però, non ha dato ai suoi soldati gli strumenti per agire, per applicare i principi affermati nelle risoluzioni.
Ma perché ora l’IDF continua ad attaccare i caschi blu?
Ci sono due fatti: Hezbollah usa le basi UNIFIL come scudi umani. Hanno scoperto un tunnel a 150 metri da una base dei soldati ONU, esattamente come Hamas fa a Gaza insediando sedi di comando nelle scuole. Inoltre, il sistema di osservazione dell’UNIFIL prevede rapporti sui movimenti delle truppe israeliane. L’IDF ha paura che siano intercettati e che il sistema di osservazione dell’ONU finisca involontariamente per diventare l’occhio elettronico di Hezbollah. Infatti, gli israeliani hanno sparato a una torretta di osservazione e al sistema di vigilanza elettronica, cioè alle telecamere montate intorno alle basi. Di sicuro, comunque, Israele ora ha rapporti pessimi con le Nazioni Unite.
(Paolo Rossetti)
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