Dopo l’esplosione dei devices la settimana scorsa, mirata forse più a ferire che non a uccidere, come ci dicono le migliaia di feriti e le centinaia di accecati, si è verificata la svolta nel conflitto annunciata da Tel Aviv. Ormai da qualche giorno, infatti, dopo la trasmissione di messaggi che invitavano i civili ad allontanarsi da istallazioni di Hezbollah, pesanti bombardamenti israeliani stanno martellando il sud del Libano e la valle della Bekaa a est. Pesanti raid anche sui quartieri roccaforte di Hezbollah a Beirut sud. Il fronte nord per Israele è stato aperto. La tattica è lineare e mira a ferire il nemico perché il mutilato di guerra resti in casa a futura memoria e cinicamente anche a consumare importanti risorse.



Ma non è, come qualcuno si è affrettato a dire, una vendetta per l’abominio del 7 Ottobre e per il sostegno di Hezbollah alla causa di Hamas. Forse è peggio, perché indica un livello superiore, indica un inquietante mix di capacità e spregiudicatezza, fatto di spionaggio per preparare gli attentati, sabotaggio e sconvolgimento della catena di comando sciita libanese per preparare l’offensiva.



Dopo quello su Oliverotto da Fermo, per questa guerra Machiavelli avrebbe potuto aggiungere un capitolo al Principe. La seconda scelta tattica ci rivela la strategia israeliana. L’attacco massiccio ha disarticolato l’organizzazione di Nasrallah, e prima che si possa ricreare la catena di comando, frantumata dalle esplosioni dei cercapersone, ci vorrà non si sa quanto tempo. Con le tante bombe, che hanno causato 558 morti tra i quali molti civili, donne e bambini, Israele vuole allontanare proprio i civili e preparare una guerra-lampo per tentare di sradicare gli sciiti libanesi, prima che gli iraniani o chiunque altro riescano a ricostruire Hezbollah senza intervenire direttamente.



Non è un’escalation come a Gaza, ma uno smash sul modello operativo delle precedenti guerre arabo-israeliane prima di Gaza. Come la guerra arabo-israeliana del 1948, la Guerra dei sei giorni e quella dello Yom Kippur. Netanyahu intende allentare la pressione di Hezbollah a nord, creando una zona cuscinetto al confine con Israele, come è già successo nel 1978 e nel 1982 quando si verificò l’espulsione dell’OLP dal Libano dopo l’attentato a Shlomo Argov, ambasciatore israeliano a Londra.

All’ONU il segretario generale Guterres ha condannato Israele, ma dopo che negli anni ha permesso che Hamas infiltrasse l’UNRWA (Agenzia per i rifugiati palestinesi) le sue parole non sono autorevoli. Praticamente tutti gli altri leader presenti al Palazzo di vetro hanno condannato l’offensiva, poiché vedono nella crisi libanese il preludio per un fronte di guerra ben più largo. Ma il messaggio più importante per Netanyahu è arrivato dall’emiro del Qatar Al Thani, che ha parlato di “genocidio” commesso da Israele a Gaza e che dopo i Sauditi ha apertamente diffidato Israele a proseguire la guerra. Questo ci dice che la misura dei sunniti è colma. I patti di Abramo sono a rischio. Dopo poche ore le agenzie ci hanno detto che Netanyahu ha contemporaneamente minacciato Hezbollah e aperto alla possibilità di un cessate il fuoco in Libano.

In questo quadro brilla l’ignavia degli USA, che nonostante i proclami, da circa un anno non riescono a imporre alcuna forma di deterrenza nello scacchiere, e nonostante le imminenti elezioni non sembrano avere alcuna presa sulla politica israeliana. Oggi Netanyahu terrà il suo discorso all’Onu con lo spettro di un mandato di arresto della Corte penale internazionale che pende su di lui. Solo gli eventi potranno dirci quanto sul confine tra Libano e Israele sia a rischio la situazione mondiale. Perfino Biden ieri ha ammesso che “una guerra totale in Medio oriente resta possibile”.

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