Non è facile leggere l’escalation di “guerra culturale” nei campus Usa, baricentro di tutte le proteste universitarie contro Israele in Occidente (Italia non marginale). Ma del resto la stessa “guerra guerreggiata” in Medio Oriente ha già mutato pelle. E non è detto che le nuove proteste non siano state alimentate anche dall’ambiguo cambio di scenario maturato con il doppio incidente fra Israele e Iran, che è parso depotenziare la centralità della sanguinosa “operazione militare speciale” di Gerusalemme a Gaza e il dramma palestinese, ridisegnando dietro Hamas una minaccia geopolitica islamica verso l’intero Occidente, così da sbloccare al Congresso – non a caso – un nuovo pacchetto di aiuti finanziari e militari a Bibi Netanyahu. A poco sembrano peraltro bastate – come palliativo mediatico – le simboliche sanzioni decretate dall’amministrazione Biden contro una sorta di “battaglione Azov” creato dai coloni israeliani estremisti e accusato di devastazioni nei Territori.
Il realismo della Casa Bianca è stato invece ribadito da una dichiarazione preoccupata (la prima dal 7 ottobre) per “la crescita dell’antisemitismo” visibile nelle tendopoli nelle Università di Columbia e Yale. L’equazione fra contestazione a Israele e antisemitismo – cara all’integralismo ebraico – era stata finora appannaggio dei repubblicani americani legati a Netanyahu non meno che dei settori della comunità ebraica d’Oltre Atlantico via via migrati verso il sostegno a Donald Trump, anti-palestinese e annessionista.
Non a caso i deputati repubblicani che avevano già provocato le dimissioni delle rettrici di Harvard e Penn (accusate di essere state troppo morbide con le marce di studenti e docenti contro Israele) hanno avuto ragione una settimana fa anche della “president” della Columbia University Minouche Shafik: che in audizione al Congresso non è riuscita a difendere la sua strategia di mediazione fra libertà di protesta, tutela degli studenti ebrei e pressioni dei grandi donatori israeliti.
L’ex economista-tecnocrate del Fmi ha conservato per ora la sua poltrona, ma al prezzo di chiamare l’intervento della polizia di New York, che ha sgomberato il campus e arrestato oltre un centinaio di studenti: un trauma che la Columbia (tradizionale laboratorio di cultura dem/liberal) non conosceva dai tempi dei movimenti anti-guerra del Vietnam; e che mai studenti e docenti di una comunità molto innervata nell’ebraismo progressista avrebbero immaginato di conoscere anche per la pressione di un governo nazionalista e militarista a Gerusalemme e di un establishment israelita vicino a Trump negli Usa. Non può essere dimenticato neppure che il verbo del politically correct oggi dominante nei grandi atenei Usa ed europei (globalista, inclusivo, attento alle minoranze deboli, problematico sul turbocapitalismo) è stato coniato in misura importante da intellettuali israeliti.
Il nodo profondo della guerra culturale sembra comunque essere politico, e avvolto attorno agli States piuttosto che in Medio Oriente. All’inizio di una campagna elettorale all’ultimo sangue, Biden non può permettersi di perdere l’appoggio della comunità ebraica (dominante in ambiti strategici come Wall Street, Hollywood e i grandi media), abbandonandola alla deriva trumpiana. Esattamente come in questa situazione il presidente non può sganciare bruscamente Israele, forse più pericoloso dei suoi nemici se lasciato libero di cercare nuove alleanze (anzitutto in Cina). Continuare a fornire armi e dollari a Netanyahu e nel contempo contenere le proteste dei giovani è un passo forse perfino sgradito al presidente “dem”, ma probabilmente obbligato, anche se non privo di grossi rischi.
Fra gli studenti minacciati di sanzioni disciplinari alla Columbia c’è la figlia di una deputata “dem” di radici musulmane, Ilhan Omar, del Minnesota. Nel volto di Isha Hirsi, 21enne studente di sociologia, considerata una “ultra-woke” attivissima sui social, sembrano riflettersi tutti gli spettri che sembrano incombere sulla campagna dell’81enne presidente dem, bianco, cattolico, espressione di tutti gli establishment fra New York e Washington. I giovani (educati a un intransigente conformismo “pol-corr”); le minoranze diverse da quella israelita (a cominciare da quella “afro” e senza dimenticare i milioni di arabi americani); l’ala radicale dei democratici, che ha proprio nelle donne “etniche” le leader più visibili: sono questi i fantasmi che Biden inevitabilmente sfida, lasciando che a New York (che ha per sindaco un ex poliziotto afro) i “cop” spazzino le tendopoli e portino in commissariato centinaia di universitari ventenni. Con un precedente nefasto per i “dem”.
Nel 1968 il presidente Lyndon Johnson (successore di JFK e padre della legge sui diritti civili) dovette rinunciare a ricandidarsi per le contestazioni studentesche alla guerra in Vietnam. La convention “dem” che candidò Hubert Humphrey (che poi perse nettamente contro Richard Nixon) fu teatro di violenti scontri di piazza. Si svolse a Chicago: la stessa città (quella di Barack Obama) dove il prossimo agosto è in programma la convention che dovrebbe lanciare Biden alla riconquista della Casa Bianca, nella crociata di civiltà contro Trump.
E in Italia? In un Paese dell’Occidente a trazione americana la situazione è apparentemente più leggibile. La polizia è stata schierata contro gli studenti pro-palestinesi inizialmente a Pisa (a difesa di “luoghi sensibili” israeliti) da un governo di centrodestra saldamente legato all’amministrazione Biden nell’appoggio a Israele. I “manganelli” sono però stati fermati dal presidente della Repubblica (un “dem” cattolico come Biden) in nome delle libertà democratiche di pensiero, parola e manifestazione.
Per questo i cortei si sono intensificati, incontrando poca resistenza nelle autorità accademiche (di atenei statali, non privati come quelli Usa). Il Quirinale ha rettificato il tiro (deplorando gli eccessi di “intolleranza”) e il governo ha potuto riattivare interventi “di ordine pubblico” attorno alle università, senza però più spiegamenti di “manganelli”, quelli che invece sono spuntati ora a New York (Stato e città governati dai democratici).
Nel frattempo sembrano in “stand by” sia l’opposizione Pd (forza di storici umori filopalestinesi anche se oggi alla guida c’è Elly Schlein, figlia di un politologo israelita “dem” americano), sia la comunità ebraica nazionale, di cui però è difficile dubitare la totale solidarietà con lo Stato ebraico e con il Governo impegnato nella missione storica di difenderne la sicurezza. Gli incidenti nelle università italiane avranno qualche riflesso fra sei settimane sul voto europeo? Se l’hanno avuto a discapito della maggioranza di governo sul voto regionale in Sardegna – e non è sicuro – certamente non è avvenuto nelle due successive tornate amministrative in Abruzzo e in Basilicata.
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