Un raid con cinque morti, che ha colpito i vertici dell’intelligence delle Guardie della rivoluzione iraniana che operano in Siria. Un’incursione stile Israele che ricorda, come modalità operative, quella di Beirut contro il numero due di Hamas Al Arouri, trait d’union dell’organizzazione palestinese proprio con Teheran. Stavolta è successo a Damasco, capitale della Siria, Paese ormai diventato un’estensione territoriale dell’Iran, dove un attacco aereo di probabile matrice israeliana ha distrutto un palazzo uccidendo, appunto, cinque persone. La prova che nella crisi mediorientale contano sempre di più non la questione palestinese ma i calcoli geopolitici dei singoli Paesi. Una regola alla quale non sfuggono neanche Iran e Israele, i due grandi nemici della regione.
Una guerra vera e propria tra di loro, però, dice Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di diplomazia culturale e geopolitica del Medio Oriente, al momento appare improbabile: gli americani, nell’anno delle elezioni presidenziali, non sarebbero disposti a sostenere Tel Aviv. Siamo di fronte a una situazione intricatissima, nella quale nessuno dovrebbe avere interesse a un’escalation del conflitto, anche se poi tutti si sentono in diritto di agire militarmente, aumentando di fatto il rischio di un allargamento.
I raid in Siria di Israele non sono una novità, spesso ha attaccato l’aeroporto di Damasco come snodo dei rifornimenti alle milizie filoiraniane. Qui però l’attacco agli interessi dell’Iran è più pesante e prende di mira i pasdaran: un avvertimento più serio degli altri?
Dal 7 ottobre c’è un conflitto implicito, non solo fra Israele e Hamas, ma tra Israele e chi addestra, arma e appoggia Hamas dal punto di vista politico e geostrategico. Nel momento in cui l’IDF è impegnato principalmente a Gaza, Houthi ed Hezbollah esercitano la loro pressione. Ed entrambi sono proxy dell’Iran. Tutto si inserisce in questo confronto, che possiamo definire implicito, tra i due Paesi: ufficialmente Teheran dice di non avere a che fare con il 7 ottobre, mentre Israele ritiene gli iraniani responsabili dell’attacco di oltre tre mesi fa. Per questo conduce una serie di operazioni nei Paesi limitrofi, in particolare in Libano e in Siria, per neutralizzare coloro che considera una minaccia, nella fattispecie i vertici dei pasdaran e tutti quelli che sono in collegamento con Hamas.
Ma si tratta di una iniziativa che colpisce più delle altre gli interessi iraniani?
A ogni azione israeliana ne corrisponde una iraniana: qui sta la paura dell’escalation, arrivare a un punto in cui l’Iran faccia qualcosa di “spettacolare”, che porti il conflitto fuori dalle dimensioni entro le quali lo si vuole mantenere. Confido nel fatto che nessuno degli attori regionali coinvolti, compresi gli Usa, abbia interesse a che la guerra si allarghi, spero che tutto rimanga nell’ambito delle “scaramucce” tra Paesi di confine. Se l’Iran avesse voluto agire diversamente i suoi proxy sarebbero intervenuti in modo più pesante: Hezbollah ha una potenza militare decine, se non centinaia, di volte superiore a quella di Hamas.
Diversi analisti sostengono che nessuno vuole allargare il conflitto, ma poi molti attori della zona prendono iniziative che vanno nella direzione opposta. Se si tira troppo la corda poi si spezza: siamo vicini al punto di rottura?
In una situazione di tensione geopolitica le cose possono sfuggire di mano. Nessuno può garantire al 100 per cento che la situazione non precipiti e il conflitto diventi regionale o più ampio ancora.
Che cosa dimostra il raid in Siria? Far vedere che l’Iran è il nemico numero uno?
L’Iran è considerata la prima minaccia per Israele e anche per altri Paesi arabi, che per questo motivo hanno cercato un riavvicinamento con Tel Aviv. Questo è uno dei capisaldi della politica estera di Israele. Netanyahu spera che lo stato di emergenza duri il più possibile per far dimenticare il 7 ottobre ed estendere il suo mandato politico: nel momento in cui lo stato di guerra finirà, si concluderà il suo mandato, ci sarà una commissione d’inchiesta e anche la sua carriera politica probabilmente terminerà.
Netanyahu è disposto anche alla guerra frontale con l’Iran?
Mai dire mai. Molte volte ha preso decisioni che non andavano nella direzione voluta dai suoi alleati. Non credo che gli Usa, che riforniscono Israele di armi e munizioni, daranno, in un anno di elezioni, il sostegno per uno scontro di questo tipo. A meno che l’Iran faccia qualcosa di clamoroso che obblighi a una risposta.
L’attacco israeliano è stato condotto a Damasco: quanto è forte attualmente il legame tra Siria e Iran?
La Siria si è consegnata mani e piedi all’Iran nel momento in cui è stata boicottata dal mondo mentre era in corso una guerra civile. Gli unici regimi che hanno aiutato concretamente Bashar al Assad sono stati l’Iran e la Russia.
È esagerato dire che la Siria oggi è una sorta di estensione dell’Iran?
Non è esagerato per niente. Il sostegno, però, deve essere ripagato con progetti economici, di infrastrutture, di ricostruzione in cui Teheran e Mosca faranno la parte del leone, ma anche con una estensione geopolitica: in Siria hanno combattuto migliaia di soldati iraniani e credo abbiano ancora un ruolo quantomeno di supervisione sull’esercito siriano.
Anche per questi motivi l’attacco di Damasco va considerato più grave di quelli che si sono verificati finora in territorio siriano?
È un attacco all’Iran, ma indiretto: rispetto ad altre volte, però, è un’azione mirata a eliminare figure di spicco. Non è la prima volta che Israele o gli Usa prendono iniziative del genere, basta ricordare il caso del generale Soleimani e l’azione contro Al Arouri, l’esponente di Hamas che era il responsabile del coordinamento e del contatto con l’Iran. Anche questo episodio era un attacco contro Hamas e contro l’Iran.
L’allargamento del conflitto dipende, quindi, da come si posizioneranno Israele e Iran?
Purtroppo è la storia dell’area. La questione palestinese non riguarda più solo la volontà di autodeterminazione dei palestinesi: le loro azioni sono sempre influenzate dagli interessi di nazioni estranee al conflitto.
La causa palestinese perde importanza, mentre hanno più peso gli interessi dei Paesi attori della scena mediorientale?
La questione palestinese è diventata marginale: il 7 ottobre, dal punto di vista di Hamas, era un modo per riportarla al centro. Però il fatto che Paesi come l’Arabia Saudita siano comunque disposti a intavolare negoziati e firmare accordi con Israele, nonostante quello che sta succedendo, ci fa intuire che probabilmente continua a essere marginale rispetto agli altri interessi politici in gioco.
In questo senso anche i russi hanno saputo sfruttare la situazione.
La Siria è legata alla Russia e diversi Paesi del Medio Oriente hanno rapporti con Mosca. I russi hanno sfruttato le debolezze Usa per ritagliarsi un nuovo ruolo geopolitico, qui come in Africa, che li sta aiutando a evitare il boicottaggio internazionale: gli Emirati Arabi, ad esempio, sono uno dei Paesi che si prestano ad aggirare le sanzioni.
(Paolo Rossetti)
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