L’avere ridefinito il Ministero dell’Istruzione inserendovi il concetto di “merito” ha sollevato una polemica sulla quale pare doveroso fare alcune considerazioni.
Si può e si deve partire da un fatto oramai conclamato: la scuola italiana segnala da tempo delle difficoltà evidenti. Nonostante i notevoli interventi in corso di realizzazione per quanto riguarda la selezione del nuovo personale insegnante – interventi che certamente, quando riusciranno ad essere a regime (non certo domani), sembrano comunque promettere buoni risultati – resta il problema immediato del livello di competenza degli studenti, inteso come insieme di conoscenze acquisite, capacità comunicative e competenze analitiche. Tale livello è diminuito in modo considerevole negli ultimi anni.
Da decenni gli atenei vedono arrivare giovani sempre meno preparati, per molti dei quali è difficile pensare ad un percorso di recupero che possa consentire loro di risalire la china. Un tale percorso andava progettato fin dalla scuola dell’obbligo ed avrebbe richiesto una struttura di insegnamento ben più articolata. Accanto al sostegno per i diversamente abili andava infatti progettato il recupero per quanti, per cause tra le più diverse (dalla mancata motivazione personale alle tensioni famigliari, dal divario linguistico agli handicap relazionali), si scoprivano nell’incapacità di assicurare quegli standard minimi necessari per conseguire un livello di apprendimento soddisfacente.
Un tale piano di intervento, per la sua evidente ampiezza e la sua necessaria articolazione interna, avrebbe richiesto risorse importanti nonché competenze adeguate e differenziate. Ci sarebbe pertanto stato bisogno di più insegnanti formati per un tale compito, di una maggiore valorizzazione degli spazi scolastici e dei tempi di lavoro e quindi di una vera e propria trasformazione dell’intera organizzazione didattica.
Qualora un simile piano di intervento fosse stato realizzato, la nostra scuola avrebbe, da un lato, evitato di subire passivamente i livelli sempre più modesti dei nuovi ingressi, limitandosi malinconicamente ad abbassare il livello di selezione fino ad annullarlo. Un’efficace selezione le avrebbe infatti consentito di continuare a garantire standard elevati e a mantenere modelli didattici che avevano dato prova della loro efficacia, se non addirittura di migliorarli, aggiungendovi tutto ciò che di meglio il nostro capitale pedagogico consente di avere a disposizione.
Ma è soprattutto sull’altro versante, quello dell’inclusione, che si sarebbero registrati i risultati migliori. La scuola infatti si sarebbe dotata di veri e propri percorsi di recupero, reinserimento e potenziamento, nei quali si sarebbero moltiplicate attività pomeridiane, assumendo insegnanti e mobilitando competenze.
Per ragioni evidenti, soprattutto di carattere economico ma anche, date le normative vigenti, di complessità strutturale, una tale strategia si è rivelata improponibile.
È allora emersa, attraverso l’esercizio irresponsabile della rimozione di qualsiasi forma di selezione, una strategia di occultamento coperta da una retorica egualitaria che ha portato a nascondere la polvere sotto il tappeto, seminando illusioni che si sarebbero poi scontrate con la realtà del mercato. Illusioni che, soprattutto, avrebbero generato il dramma personale di chi, una volta messo dinanzi al mondo delle professioni, si sarebbe scoperto con dei deficit oramai non facili, quando non addirittura impossibili, da recuperare e quindi ignorante per sempre.
Peraltro l’abolizione della selezione, o quanto meno la sua riduzione a livelli risibili, non ha affatto realizzato nessuna uguaglianza sociale, ma l’ha solamente spostata verso livelli irraggiungibili. Istituti di eccellenza e università di prestigio con rette astronomiche stanno diventando i nuovi ascensori sociali dinanzi ad università costrette a fare i conti con le nuove generazioni di studenti dalle quali possono pretendere sempre meno.
La rimozione del concetto di merito e l’illusione di possedere automaticamente ciò che, in realtà e per i motivi più diversi, non si è affatto stati capaci di acquisire, costituisce un tassello essenziale del disastro attuale che, pur tra encomiabili eccezioni, è sotto i nostri occhi.
Riabilitare il merito vuol dire innescare una spirale virtuosa dalla quale tutti possono trarre benefici. Primi fra tutti, proprio coloro che oggi sono solo apparentemente inclusi, fregiati ipocritamente di competenze che non hanno e che nessuno ha permesso loro di recuperare in tempo, avviati ad abitare un limbo concettuale dal quale non possono facilmente liberarsi.
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