I dati sulla congiuntura economica italiana hanno acceso una luce di speranza. Nel secondo trimestre del 2022 l’Istat stima che il Prodotto interno lordo sia aumentato dell’1% rispetto al trimestre precedente e del 4,6% in termini tendenziali. Nel primo trimestre dell’anno il Pil aveva registrato un aumento dello 0,1%. La variazione acquisita per il 2022, cioè anche se nei prossimi sei mesi l’economia si fermasse, è pari a +3,4%, ben oltre il +2,6% stimato in precedenza. Molto meglio che in Germania, in crescita zero nel secondo trimestre, più o meno come in Francia (crescita acquisita 2,5%), peggio che in Spagna (nel secondo trimestre ha compiuto un balzo del 6,3%). Dunque, non c’è ancora aria di recessione. Tuttavia le notizie che arrivano dagli Stati Uniti (secondo trimestre negativo, recessione tecnica) non sono affatto positive. Non sappiamo ancora che cosa abbia tenuto in piedi l’economia italiana, per ora si parla di domanda interna che ha compensato la riduzione di quella estera, possono essere i consumi, gli investimenti o le scorte. Soprattutto non sappiamo cosa ci aspetta nei prossimi mesi.
I segnali più allarmanti vengono dai costi dell’energia. Secondo indiscrezioni da palazzo Chigi c’è il pericolo di un rialzo tra l’80% e il 90% di qui all’autunno. Ciò vuol dire che l’inflazione non è destinata a ridursi e certo non serviranno a molto ulteriori aumenti dei tassi d’interesse. La stretta monetaria può funzionare dopo un certo periodo di tempo se si debbono comprimere le spinte interne (a cominciare da quelle salariali) come è avvenuto negli Stati Uniti. Non incide nel caso che si tratti di una riduzione delle ragioni di scambio provocata da materie prime e soprattutto fonti energetiche. Il rischio, anzi, in questo caso è una rincorsa perversa tra costo del denaro e costi delle importazioni il cui effetto è provocare una recessione. Speriamo che ciò non accada e che la Bce non cada nella trappola deflazionistica.
Intanto il rialzo dei prezzi del gas e del petrolio (oggi a differenza da un tempo è il metano a trascinare in alto l’oro nero) ha effetti pesanti che impongono decisioni difficili. Per ridurre l’impatto sui bilanci delle famiglie, il Governo ha intenzione di prorogare i sussidi. Senza il loro intervento, la bolletta energetica sarebbe stata più alta del 40% secondo l’Arera. Non sono regali, perché ricadono comunque sul bilancio pubblico e vanno ad aumentare l’indebitamento. Ma se le famiglie possono essere ancora tutelate per i prossimi mesi, che cosa succede alle imprese? I tecnici di palazzo Chigi sono molto preoccupati in particolare per la ricaduta sui settori cosiddetti energivori, come ad esempio i trasporti e la siderurgia. E proprio in questi due comparti si concentrano vere e proprie emergenze economiche e sociali che coinvolgono direttamente il Governo.
Un caso evidente riguarda ITA Airways. Con i costi dei carburanti che salgono a questi ritmi, la compagna aerea nata dalle ceneri dell’Alitalia rischia di rimanere a secco: prima si prosciuga la cassa, poi si prosciugano di kerosene i serbatoi. Durante l’incontro con il Governo, i sindacati hanno fatto pressione. Anche per loro non c’è tempo da perdere. Per sei mesi si può tirare avanti, fra otto mesi si galleggia a malapena, tra dodici mesi si va con i libri in tribunale. E restano fuori i 2.500 lavoratori tra personale di terra, piloti e assistenti di volo. A questo punto diventa più urgente una iniezione di capitale, la stessa che era stata rinviata in vista dell’accordo con MSC e Lufthansa. L’intesa è stata approvata dal Tesoro che oggi è l’azionista unico di ITA e deve essere firmata da Mario Draghi. Rientra nella “normale amministrazione” e il capo del governo può procedere motu proprio. Può darsi che Draghi voglia comunque un passaggio in Consiglio dei ministri, con il rischio che ITA diventi oggetto di campagna elettorale. I segnali ci sono già stati e Fratelli d’Italia ha mostrato due volti: quello di Fabio Rampelli che vuole la nazionalizzazione e quello di Guido Crosetto che vuol lasciare la patata bollente al Governo dimissionario.
Una vicenda parallela, molto simile, coinvolge l’Ilva. Il 26 luglio sono trascorsi dieci anni dall’intervento della magistratura. La fabbrica non s’è mai fermata, anche se produce ben al di sotto delle sue potenzialità. Nel maggio scorso lo Stato avrebbe dovuto passare dal 38% attuale al 60% della nuova società con ArcelorMittal al 40%, attraverso un aumento di capitale di 680 milioni di euro. Tutto è stato rinviato al 2024, ma la crisi energetica da un lato e la tagliola giudiziaria dall’altro rischiano di rimettere in discussione la vita stessa dell’azienda. Negli ultimi tre anni sono stati investiti nell’ex Ilva 1,1-1,2 miliardi di euro, di cui 700 milioni riferiti alla sola parte ambientale. Lo conferma l’Ispra nel rapporto al ministero della Transizione ecologica. Alla magistratura però non basta: gli impianti restano sequestrati, Acciaierie d’Italia li ha in gestione, ma non sono a disposizione dell’azienda. I No Ilva tarantini, intanto, hanno depositato una nuova denuncia. A questo punto, può diventare necessario e urgente procedere all’aumento di capitale per salvaguardare il gruppo siderurgico e l’occupazione di 10mila lavoratori, molti dei quali in cassa integrazione da anni.
Il Governo si prepara a varare un ulteriore pacchetto di aiuti, da quel che si capisce con la stessa tecnica a pioggia usata finora. Se si resta entro i 14 miliardi di euro si potrà evitare di aumentare il disavanzo perché verrebbero consumate tutte le entrate fiscali aggiuntive affluite grazie alla crescita superiore al previsto. Nel momento in cui si aggiungono nuove crisi aziendali e gli interventi dovuti nelle aziende in mano allo Stato, sarà davvero difficile restare entro la cornice di bilancio già fissata. Allora si farà nuovo debito, con oneri più pesanti visto il rincaro del costo del denaro. Può essere debito inevitabile, necessario persino, ma certo non debito buono.
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