Nell’ultimo articolo abbiamo visto come, se guidata da persone competenti nel settore, Alitalia, compagnia aerea di un Paese chiamato Italia, che dovrebbe essere una potenza economica di prim’ordine, quindi con un traffico dovuto anche alla sua gigantesca attrattiva turistica, potesse ambire a un posto di rilievo nel traffico aereo europeo e mondiale. Abbiamo però anche visto, citando fatti e non parole, come la stessa sia stata distrutta sia per “incapacità nazionale” che per interventi fatti dalla Ue atti a ridurne l’importanza rispetto ad altri vettori. “L’harakiri nazionale” è iniziato immediatamente dopo il tramonto del “piano Cempella” e, considerando l’Alitalia più come un organo statale che un vettore, attraverso una serie innumerevole di errori, si è arrivati allo stato attuale delle cose.
Si è giunti a proclamare in pompa magna l’italianità e la funzione di vettore del “made in Italy” di una ITA che gli stessissimi dirigenti lottano per far passare sotto il controllo totale di Lufthansa in una sottospecie di “patto d’acciaio”, sì, ma del “made in Germany”. Roba da far suicidare Spielberg per mancanza di fantasia. Ma torniamo agli “errori”. Tanto per abbattere un altro “cavallo di battaglia” di certe fazioni, già nel 2006 la vecchia AZ aveva un costo del lavoro tra i più bassi dei vettori di riferimento europei: infatti se prendiamo i dati AEA (l’associazione che raggruppa le compagnie aeree europee) di quell’anno vediamo che a fronte di 100 euro di ricavi, Alitalia ne spendeva 16 di costo lavoro contro una media di 23 degli altri. Ma dove si rivelava la questione è nel fatto che, per la sua organizzazione, contro una media europea di 63 euro Alitalia ne spendeva ben 94. Ecco che ciò che gravava in forma gigantesca su tutta la questione non era il “materiale umano” bensì i servizi, che spesso costituivano fondi letteralmente buttati dalla finestra, come mi confessò una volta un suo ex presidente.
Quello che un altro vettore pagava 10 noi lo avevamo versando 100, questo per la catena di complicità all’interno dell’approvvigionamento di materiali e di tutto ciò che serviva per volare. E non occorre molto per capire che, a causa della sua appartenenza allo Stato, i prezzi salivano alle stelle. Ma, allo stesso tempo, i vari Ad, complice una manleva che li sollevava da responsabilità, hanno commesso errori strategici importanti come quello che, durante “l’era Cimoli”, in pratica demolì un settore importantissimo come quello della manutenzione, vero e proprio fiore all’occhiello e oltretutto di importanza rilevante non solo per l’inimitabile know-how che aveva a disposizione, riconosciuto internazionalmente, ma anche perché, se ben gestito, avrebbe procurato sviluppo e guadagni considerevoli, visto che in alcune consorelle (tipo Lufthansa) il settore tecnico garantiva i maggiori guadagni dell’intero vettore.
Poi i “capitani coraggiosi” di berlusconiana memoria completarono l’opera e così le revisioni dei motori, tanto per fare un esempio, venivano fatte in Israele ma si rivelarono, nei risultati, ben al di sotto degli standard aziendali, per cui si cadde dalla padella (supposta) nella brace (reale), anche se in quegli anni AZ era privata al punto che nel corso degli anni e sotto l’egida di due società, CAI e SAI, arrivarono due bei fallimenti. Però il costo del lavoro, già competitivo come abbiamo visto, si ridusse a livelli ridicoli e praticamente inferiori a quello delle lowcost con l’avvento poi della disastrata operazione ITA.
A questo punto, e con una società ormai in un fallimento tecnico e con un futuro non certo roseo (non per colpa delle cause dei lavoratori, ma degli errori di una gestione arrivata a un contratto di cessione di solo un euro fatto passare per una rottura di una continuità – che non c’è in assoluto – e creando un danno incalcolabile alla vecchia Alitalia) quello a cui bisogna assolutamente pensare è che la soluzione non sta certo nell’intera cessione a un vettore straniero, pena la perdita totale di controllo dell’Italia nel settore, visto che non si è mai vista una compagnia aerea fare beneficenza nei confronti di una acquisita, semmai tutto il contrario.
Ma, a quanto pare, ciò che è accaduto durante la partecipazione del vettore emiratino Etihad non è stato sufficiente, e alcuni vedono ancora lo straniero come un ente di beneficenza. Uno Stato che si rispetti (e Germania, Francia e altre nazioni europee lo confermano) deve avere un controllo in settori vitali della propria economia: ciò non vuol dire necessariamente essere proprietario al 100% di un vettore, ma avere una percentuale di maggioranza oppure anche una minoranza, ma con un fondamentale diritto di veto.
E qui arriviamo al dunque. La gestione del vettore deve essere data a veri esperti del trasporto aereo. In poche parole dovrebbe essere ritirato fuori dai cassetti il piano che anni fa venne elaborato dal duo Intrieri-Arrigo che si riproponeva di trasformare Alitalia finalmente in un vettore efficiente e funzionale all’interesse del Paese. Flotta bilanciata tra lungo e medio raggio, un vettore dedicato ai voli nazionali (che potrebbe essere ATI) , reinserimento di tutti i lavoratori Alitalia ora in Cigs e riconoscimento dell’anzianità aziendale come elemento principale per i passaggi ai gradi superiori. Con questo si manterrebbe ancora ciò che rimane (non molto, ma per fortuna qualcosa c’è) del know-how aziendale, abbondantemente distrutto da dirigenze completamente ignoranti nel settore, che hanno, nel corso di questi ultimi anni, creato un danno incalcolabile. Contemporaneamente serve un ridisegno della mappa aeroportuale del nostro Paese: è sinceramente pazzesco che, pur esistendo da anni, sia ancora inoperativo il decreto sui requisiti di sistema partorito anni fa. Non è proprio possibile l’operatività point to point a livello internazionale, perché oltretutto il nostro Paese ha già a disposizione due potenziali hub, lo ripetiamo, situati in aree altamente strategiche sia del continente europeo che del bacino del Mediterraneo. Inoltre, bisogna che, una volta per tutte, venga tolto il segreto sui contratti che legano le compagnie lowcost agli aeroporti, visto che sono mantenuti con denaro pubblico e hanno creato negli anni un vero e proprio monopolio a prezzi stellari nel mercato nazionale.
In poche parole dovremmo, finalmente, avere un po’ di sano e giusto sovranismo: proprio come ci dimostrano altri Paesi Ue, che si guardano bene da affidare imprese economiche strategiche per il Paese ad altre nazioni. Lo Stato, in questa fase di “rinascita”, potrebbe partecipare nei modi sopra descritti: o con un controllo della nuova impresa al 51% o con una quota di minoranza ma con una maggioranza saldamente in mani italiane.
Il futuro può essere ancora nostro: ma se aspettiamo ancora un po’ saranno dolori che pagheremo con un’Italia che, se continua in questo processo di aperture a 180 gradi, rischia di soccombere, come già avviene in molti settori dove ormai la mano d’opera italiana viene ridotta a compiti basici, essendo il controllo delle imprese in altri Paesi. Il settore automobilistico ne è l’esempio più lampante e basta fare un giretto a Torino e dintorni per vedere i danni di queste politiche scellerate e le imprese che hanno dovuto chiudere i battenti nonostante la loro altissima (e spesso invidiata) tecnologia. Propongo a tutti i lettori di cercare e vedersi su internet l’intervista realizzata al grande designer Giorgietto Giugiaro nel servizio dedicato a Torino fatto dalla trasmissione Presa Diretta: altro pezzo d’Italia che se ne è andato. Cerchiamo di interrompere questo stillicidio: partendo dai cieli si può ancora fare.
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