Il risiko delle poltrone, la sorte di Ursula von der Leyen, il braccio di ferro sul Mes, il pendolo di Giorgia Meloni tra conservatori e popolari, la crisi della coppia franco-tedesca che aveva guidato l’Unione Europea. Le elezioni hanno lasciato una serie di incognite e in questi giorni si fatica a trovare risposte anche perché prevale un clima di tensione in buona parte segnato da tattiche spesso coperte da polemiche propagandistiche. Ma chiunque ricopra i top jobs, dovrà affrontare a breve giro di posta almeno tre problemi di fondo.



Il primo: come gestire la procedura d’infrazione per deficit eccessivo che colpisce sette Paesi a cominciare da Italia e Francia (gli altri sono Polonia, Belgio, Ungheria, Slovacchia e Malta). È un test importante per la prossima Commissione, si tratta di mettere in pratica il nuovo Patto di stabilità. Il secondo, strettamente collegato, riguarda il caso francese: vedremo come andranno le elezioni, ma in ogni caso il Paese è in preda a una vera e propria crisi di nervi. Il terzo e per molti versi decisivo riguarda l’andamento dell’economia europea in piena fase di ristagno e il ruolo della banca centrale. Una crescita bassa aggrava tutti i problemi e rende davvero problematico gestire le politiche di bilancio.



Cominciamo proprio da qui. Christine Lagarde ha detto che non ha intenzione di ridurre ancora il costo del denaro. Il modestissimo taglio dei tassi (appena un quarto di punto) è tutto quello che può e vuole fare di qui alla fine dell’anno. “I tassi di interesse dovranno restare restrittivi finché sarà necessario per assicurare la stabilità dei prezzi”, ha scritto sul blog della Bce e ha aggiunto a scanso di equivoci: “In altre parole, per un po’ dovremo ancora tenere il piede sul pedale del freno, pur non spingendo forte come prima”. Eppure l’inflazione sta rallentando ovunque e in Paesi come l’Italia, secondo le stime della Banca d’Italia, scenderà persino sotto l’obiettivo del 2% di qui alla fine dell’anno. Dunque, la politica monetaria rimane restrittiva se il costo del denaro è al 4%, un tasso superiore a quello dell’inflazione attesa.



Come si può pensare che con una stretta monetaria, Paesi come Francia e Italia possano realizzare una politica di bilancio anch’essa restrittiva senza provocare una recessione? L’unico modo per evitarlo è concordare politiche di rientro soft. In base alle regole della”nuova governance europea”, i Paesi sottoposti alla procedura d’infrazione saranno tenuti a ridurre il proprio deficit dello 0,5% all’anno, in un orizzonte di medio periodo.

Per l’Italia si tratta di trovare 10 miliardi l’anno tra riduzioni di spesa e aumenti delle entrate. Non sarebbe difficile anche se si parte da un disavanzo del 7,4% invece del 3% e da un debito pari al 137,3% del Pil, ma ci vogliono tre condizioni: una crescita reale superiore all’1%, un costo del debito inferiore all’attuale 4% e un rapido rientro dallo spendi e spandi, in altri termini una politica di bilancio non solo prudente, ma coraggiosa, in grado di ridurre la spesa corrente a vantaggio della spesa per investimenti.

Il Governo italiano ha annunciato di voler prorogare nel 2025 gli sgravi decisi nel 2023 (la fiscalizzazione degli oneri sociali e l’accorpamento delle aliquote) che erano stati finanziati solo per l’anno in corso. Si tratta di quasi 11 miliardi di euro secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio. A essi si aggiungono altre misure di varia entità (le più consistenti riguardano il Mezzogiorno) che portano il totale poco oltre i 18 miliardi. Si parte da qui, da spese aggiuntive, non dai 10 miliardi in meno richiesti dal nuovo Patto di stabilità.

L’Italia non è sola, anche se sta peggio per colpa del debito che impone un costo vicino ormai ai 90 miliardi di euro se non arriva una impennata dello spread. La Francia, sotto la spinta di un’ondata di proteste sociali e di instabilità politica, certo non s’incammina sulla via del rigore di bilancio, men che meno dell’austerità. Chiunque vinca, l’Assemblea nazionale sarà frammentata, Macron non potrà contare su una chiara maggioranza (come del resto non l’ha avuta negli anni scorsi), ma nemmeno Marine Le Pen potrà eventualmente formare un Governo stabile, al contrario sarà stretta in una tenaglia: da una parte un Presidente certo non amichevole e dall’altra un Parlamento tumultuoso.

Ecco perché sarà decisivo che la prossima Commissione interpreti bene e gestisca al meglio le nuove regole. E sarà fondamentale che la Bce non ostacoli il cammino verso la stabilità. La banca centrale è indipendente, ma certo non può restare chiusa nella sua torre d’avorio. L’economia europea è in apnea, con la Germania che fatica a riprendersi e non è in grado di fare da locomotiva come in passato. Il nocciolo duro dell’Unione, non solo dell’Eurolandia, si è spezzato e non si capisce come potrà essere rimpiazzato. L’unica vera (e finora solida) istituzione unitaria è la Bce, mentre tutte le altre vacillano; spetta a lei il compito forse inedito, ma fondamentale, di reggere l’intera costruzione europea.

Lo ha fatto Mario Draghi quando tutto stava per crollare sotto la crisi economica, sarà in grado di farlo Christine Lagarde in mezzo a una crisi politica altrettanto grave? Proprio lei che sperava in un ritorno alla normalità?

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