Oggi finisce il G20 a Bali dove Giorgia Meloni ha fatto il suo esordio sulla scena mondiale tra i grandi della terra e ha incontrato in importanti incontri bilaterali alcuni degli artefici dei destini del mondo. È il terzo incontro internazionale, dopo il faccia a faccia informale con Macron a Roma e il viaggio ufficiale a Bruxelles, a segnalare la volontà di dialogo del nuovo governo di centrodestra. Sembrava una partenza se non facile, per lo meno in pianura e sotto i riflettori, e invece le cose sono andate diversamente, con uno scontro durissimo con Parigi sulla questione migranti, battaglia arrivata nei palazzi dell’Unione Europea a Bruxelles.



Era forse prevedibile, se non nei tempi nella sostanza, la voce grossa con i maggiori partner europei.

Il fatto è che la conduzione franco-tedesca dell’Unione non esiste più ed è difficile capire dove l’Ue stia andando. La guerra in Ucraina ha tolto il velo alla realtà. l’Europa è senza sovranità, perché senza la forza, senza il monopolio della violenza, non può avere nessuna politica estera e di sicurezza, a partire da una gestione sensata della politica energetica. Tutto si tiene: la sovranità non è un concetto astratto. In questi frangenti, la realtà è durissima: ogni paese mette al centro i propri interessi senza riguardi, cercando di massimizzare i vantaggi, ma più che altro cercando di limitare i danni che la guerra comporta.



Se la Germania non ride, con la necessità di ridisegnare una strategia economica dopo la chiusura degli approvvigionamenti energetici dalla Russia, anche la Francia è costretta a barcamenarsi tra i suoi desideri, spesso velleitari, e la realtà di una crisi che sta colpendo duramente un’economia già segnata dalla pandemia. Una Francia che vede anche minacciati i suoi sogni di paese leader militare all’interno dell’Ue grazie all’idea di una divisione di ruoli con la Germania: a Berlino il compito di fare da locomotiva dello sviluppo, a Parigi la gestione della difesa, data la sua dotazione nucleare, l’eredità dell’impero coloniale e il posto nel Consiglio di sicurezza alle Nazioni Unite.



Le cose però non stanno andando così. Innanzitutto, il sogno di una politica di difesa europea a gestione francese ha subito colpi micidiali dagli ultimi eventi. Abbiamo infatti non la fine della Nato prevista in modo lungimirante da Macron – ci ricordiamo “la morte celebrale” dell’Alleanza diagnosticata dal presidente francese nel novembre 2019? – ma esattamente il suo contrario, una rinascita, un suo rafforzamento. E per di più con uno spostamento offensivo della Nato verso la Russia, Paese non certo antagonista della Francia, con i Paesi anglosassoni, i baltici, gli scandinavi e gli slavi, in testa la Polonia, in prima linea.

In secondo luogo, la Germania ha compiuto la grande svolta: ha scelto di riarmarsi per la prima volta dopo la seconda guerra, ha scelto di pensare alla sua difesa in prima persona, non delegando certo alla Francia il ruolo di capofila di un futuribile esercito europeo.

In terzo luogo, la Francia si ritrova frustrata nei suoi tentativi di svolgere un ruolo decisivo nel così detto Mediterraneo allargato. Nell’Africa subsahariana è costretta a ritirare le sue truppe dal Burkina Faso, ma prima, e fatto ben più importante, non possiamo dimenticarci il disastro strategico creato dalla sua iniziativa di deporre Gheddafi alla ricerca di un vantaggio petrolifero che ha aperto il pozzo degli orrori della Libia, mettendo in un angolo l’Italia, anche certo per colpa nostra, con la conseguenza di aprire le porte alla Russia e alla Turchia e di trasformare il Paese in un terminal dell’immigrazione clandestina in mano a gang criminali usate e manovrate a piacimento da chi occupa senza scrupoli il potere.

Ma l’elenco dei passi falsi di Parigi continua, con il tentativo, anch’esso fallito, di fermare la Turchia nel Mediterraneo orientale davanti a Cipro nella questione della gestione dei giacimenti, oppure nella ricerca di mediazione, pure naufragata, nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan, oppure ancora nel cercare di trovare uno spazio di azione nel conflitto in atto con Putin, forte – la Francia – della sua indipendenza dal petrolio russo. Sforzi vani e forse vacui, perché la realtà è che alla Francia manca la forza economica e militare per attuare i suoi sogni.

La verità è che ogni Stato in questo duro momento sta facendo in modo trasparente il proprio gioco e a poco serve la retorica sui Paesi cugini o sui Paesi “fondatori” dell’Europa. l’Italia, una media potenza, ha interessi strategici definiti e altrettanti chiari vincoli. Partiamo da questi ultimi.

In primo luogo, il peso della geografia. L’Italia è collocata in una posizione chiave a cavallo del Mediterraneo occidentale e orientale, a controllare uno dei colli di bottiglia centrali, il canale di Sicilia, mare dove passa il 20% del traffico marittimo mondiale e il 27% dei servizi di linea container. Se le nostre coste sono aperte agli sbarchi di immigrati, sono anche posizionate in modo strategico, e questo è un dato di fatto, un dato più reale delle parole.

In secondo luogo, vi sono i due vincoli istituzionali internazionali, la Nato e l’alleanza con gli Stati Uniti da una parte, che garantiscono la sicurezza militare, e il pilastro dell’Unione Europea, che garantisce la sicurezza economica e l’integrazione del nostro mercato.

In terzo luogo, dobbiamo gestire in casa due problemi enormi, l’essere privi di risorse energetiche proprie e i vincoli derivati dall’enorme debito pubblico. Il primo punto fa sì che si sia completamente dipendenti dall’estero per le materie prime, e questo significa che si devono acquistare da chi le ha, non da chi ci piace; e il secondo problema si traduce nella necessità di dover conquistare la fiducia continuamente, giorno per giorno, come si dice, dei mercati internazionali. Queste sono i binari su cui si muove la nostra politica estera, linee che disegnano la cornice che delimita lo spazio d’azione anche della politica economica.

Né la Nato, né gli Stati Uniti, né Bruxelles, né Parigi, né Berlino fanno automaticamente i nostri interessi. Non solo sono alleanze e unione tra molti, ma spesso il loro sguardo sui nostri interessi è o distratto o addirittura non c’è. l’Europa dalla sua nascita infatti ha un’attenzione privilegiata verso nord, mentre il baricentro dell’Alleanza atlantica si sta spostando verso il Baltico e ad Est. Anche gli Stati Uniti, gestori mondiali del poco ordine che rimane, stanno sempre più guardando al di là dell’Europa, verso il Pacifico, per contrastare – non si sa con quali mezzi e quale esito – il Drago.

Il risultato è che il Mediterraneo si è trasformato in un lago dove non c’è più nessun Paese occidentale che abbia una visione strategica e una sua gestione efficace né geopolitica né economica; sono rimasti gli Usa a garantire il minimo indispensabile di sicurezza militare, e gli altri se ne occupano in modo occasionale e confuso.

Si è aperto quindi uno spazio poco e mal gestito dal complesso occidentale, con il rischio reale di lasciare campo a ogni avventura. A questo governo quindi il compito di portare al centro dell’attenzione dei nostri alleati e partner, specialmente di quelli più lontani ma interessati alla sicurezza, il Mediterraneo. L’elenco dei temi non gestiti che diventano problemi e infine crisi è lungo, a partire dalla questione del secolo, le migrazioni, passando alla gestione delle instabilità dalla Siria alla Libia, cercando un equilibrio con le ambizioni regionali russe e turche, e le proiezioni cinesi. Il governo di centrodestra sembra si stia muovendo in questa direzione, con la Dichiarazione congiunta dei ministri dell’Interno di Italia, Malta e Cipro e del ministro della migrazione della Grecia di sabato scorso.

Quello che è chiaro è che l’Italia non può aprire in contemporanea una disputa su tutti i dossier e con tutti gli alleati. Adesso che la scelta atlantica e filoamericana di Giorgia Meloni e del governo è chiara e non ambigua, che il prezzo della guerra ucraina, il costo di far parte della Nato, l’Italia l’ha pagato e lo sta pagando fino in fondo, il governo non può far altro che fare forza su questa leva, sull’amico americano, per ottenere più peso in Europa, per riuscire nell’impresa di far prendere coscienza a Bruxelles, ormai senza direzione in politica estera, dell’esistenza di un Sud Europa.

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