Quarant’anni fa esatti, nel glorioso Estadio Santiago Bernabeu di Madrid, l’Italia vinceva inopinatamente il titolo di campione del mondo di calcio, terzo della sua storia. Molto si è detto e si dirà in questi giorni per celebrare la felice ricorrenza. Di certo, chi c’era e aveva all’ora un’età sufficientemente sgamata, ne conserva un ricordo indelebile, per sempre impresso nel profondo del cuore. Perché nulla di quanto successo dopo – non solo in ambito calcistico – è nemmeno lontanamente paragonabile alla sbornia di felicità, stupore e gratitudine di quei giorni.
Diceva il rag. Ugo Fantozzi nel 1980, alla fine del terzo film della saga, di essere il più grande perditore di tutti i tempi (ma in quanto tale, indistruttibile!). Di avere perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, il potere d’acquisto della lira, la fiducia nei propri governanti, e poi “otto – dico, otto! – campionati mondiali di calcio consecutivi”. Mai si sarebbe immaginato, l’ineffabile ragioniere, che solo due anni dopo la lunga striscia negativa si sarebbe così gloriosamente interrotta.
Nessuno di noi al posto suo l’avrebbe immaginato. Nemmeno Silvan o Giucas Casella. Ma nella frase fantozziana sta anche il significato più profondo di quella vittoria, che possiamo sintetizzare con la parola “riscatto”. Fra tante felicità fittizie, illusioni del mondo media-consumistico in rapida ascesa, il mundial spagnolo fu una perla di autenticità. Ancora più bella perché inattesa, perché vittoria conseguita con un’escalation di prestazioni rese onorando tecnicamente e – soprattutto – tatticamente la storia del nostro calcio, la tradizione della nostra scuola. Questo più di tutto piacque alle “piazze” di allora, che impazzirono rispecchiandosi negli eroi ordinari di quella impresa straordinaria.
Sportivamente parlando fu anche una sorta di canto fuori dal coro, il proverbiale of fò de la caàgna, come disse tra il serio e il faceto il decano dei giornalisti sportivi Giovanni Brera fu Carlo, cui si deve la definizione di calcio come “mistero agonistico spiegabile solo a posteriori”. E infatti il trionfo azzurro risulta a posteriori qualcosa di perfettamente logico, tecnicamente e tatticamente spiegabile, nonché meritatissimo.
Non c’è mai stato prima né ci sarà mai dopo nulla di paragonabile, sia dal punto di vista più strettamente tecnico-agonistico che, soprattutto, da quello socio-culturale. Le vittorie successive, quella ai mondiali del 2006 come quella agli europei dello scorso luglio non reggono il confronto, nemmeno alla lontana. Che poi sono state due vittorie ai calci di rigore, quindi due pareggi. Vittorie nominali di un calcio drasticamente succube della tv, generalista come di quella dedicata. Trionfi ostentati, strombazzati, ordinari nella sostanza ma divenuti stellari solo perché enfatizzati dal frenetico tam-tam della giungla multi-mediatica contemporanea. Mentre il mundial spagnolo è stato tutto sostanza, che il video si è solo incaricato di certificare, mostrando niente più di quello che già esisteva in natura.
Ricordo che dopo la partita con l’Argentina la Gazzetta dello Sport titolò “Trionfo!”, e dopo la successiva col Brasile il titolo d’apertura fu “Fantastico!”. Indi la vittoria in semifinale fu salutata dalla “rosea” con un tautologico “In finale”. Che messo tutto in fila suonava: “Trionfo fantastico in finale”. Mio padre aveva volutamente lasciato quei tre giornali impilati in sequenza, su una sedia da non toccare, non mancando di far notare la curiosa coincidenza. Gesto di umana scaramanzia che pare abbia funzionato. Scherzi a parte, di certo ha funzionato la bontà intrinseca del modulo all’italiana; la prima fase del torneo giocata al fresco di Vigo, presso l’oceano atlantico, mentre altere squadre si cuocevano al caldo torrido della landa spagnola. E poi la grande conoscenza del calcio internazionale che aveva Enzo Bearzot, troppo spesso colpevolmente dileggiato. Ha funzionato anche il “gruppo”, costruito a partire dal 1975, anno d’inizio della gestione Bearzot, consolidatosi nel tempo e basato su una generazione di giocatori nata negli anni Cinquanta (tranne Dino Zoff, del 1942, e lo “zio” Bergomi, del 1963), quindi cresciuta nelle giovanili delle varie squadre nei primi anni Settanta, periodo nel quale il numero di giocatori stranieri nel nostro campionato era esattamente pari a ZERO. Parafrasando il Nanni Moretti di Aprile (1998), quest’ultimo dato non c’entra… ma c’entra, eccome se c’entra.
Raccontava Paolo Rossi, con dichiarazioni rilasciate in tempi diversi in varie interviste, che dopo la premiazione e il giro d’onore con la coppa si era a un certo punto fermato, stanco e in preda ai crampi. Seduto sull’erba del Bernabeu si era ritrovato a osservare il tutto con un sereno distacco, come a voler fermare il tempo in un istante di felice eternità. Felice sì, ma anche immerso in una sottile tristezza agrodolce, perché consapevole che il sogno stava per finire, e una gioia sportiva come quella non l’avrebbe rivissuta mai più.
Ripensandoci ora, l’immagine dall’alto del Bernabeu a fine partita, inondato di mille luci e bandiere tricolori mi fece lo stesso effetto agrodolce, come di certo sarà accaduto a moltissimi altri, dalle Alpi alla Sicilia. Saremo tutti per sempre grati all’immortale Pablito, agli altri azzurri e al loro mentore Enzo Bearzot per averci regalato quell’immensa gioia sportiva che anche noi, ne siamo certi, di così piene e sincere non ne rivivremo mai più.
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