Quando il quotidiano di Confindustria mette in prima pagina un’intervista a un guru cinese della computer science fa il suo lavoro: informa i suoi lettori e l’opinione pubblica (non solo italiana) di quanto profondi e complessi siano i rapporti consolidati negli ultimi trent’anni fra Italia e Cina. E il professor Yang Wang, non da ultimo, è rientrato a Hong Kong (ormai ricongiunta alla mainland cinese) dopo un lunghissimo cursus nelle migliori università statunitensi. È quindi un testimonial eccellente per mettere alla prova la teoria e la politica del “decoupling/derisking” che Usa e Ue hanno annunciato – con accenti e modalità diversi – nei confronti della Cina, identificata come nuovo avversario strategico dell’Occidente dopo la crisi russo-ucraina.



Qui  e ora, Il Sole 24 Ore ha dunque evidenziato un mood dialogante con l’establishment di Pechino; e questo all’indomani della visita della Premier Giorgia Meloni alla Casa Bianca. Nello Studio Ovale il Presidente Joe Biden ha certamente rammentato al capo dell’Esecutivo italiano l’attesa Usa di un disimpegno di Roma dal memorandum Belt and Road, siglato dall’allora Governo Conte-1 con la Cina. Ma se Meloni non ha potuto beneficiare della conferenza stampa congiunta nel “giardino delle rose” (riservata alla visite giudicate di massimo livello) è stato senza dubbio perché non era nelle condizioni di annunciare formalmente la decisione di rompere con Pechino.



Già nei giorni precedenti palazzo Chigi aveva del resto fatto filtrare l’attuale postura italiana sul dossier: nessuna rottura, nessuna decisione prima di un incontro di alto livello con i vertici cinesi, presumibilmente dopo una visita di Meloni a Pechino entro l’anno. Quello Italia e Cina s conferma dunque un nodo molto difficile da sciogliere: nonostante Roma sia in questo momento l’alleato più solido fra i Big Three Ue sul fronte della fermezza Usa/Nato verso la Russia e quindi verso la Cina. Ma sia il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, sia soprattutto il Presidente francese Emmanuel Macron si sono segnalati negli ultimi mesi per le loro trasferte a Pechino, molto business-oriented e accompagnate da prese di posizione dissonanti dalla lunga escalation geopolitica di Washington nei confronti del Dragone.



Rompere con Pechino nell’imminenza delle elezioni Ue, del rinnovo della Commissione e della ridiscussione dei parametri di stabilità finanziaria dell’euro si profila dunque chiaramente essere per Meloni un passo molto, troppo impegnativo. Senza contare che fra un anno anche gli Usa avranno un nuovo Presidente e non è certo che sia ancora Biden o comunque un “dem” di profilo anti-cinese.

La Premier italiana sente comunque sul collo anche il fiato inconfondibile della sua Azienda-Paese: già penalizzata dalle sanzioni anti-russe della Prima guerra Ucraina e ora della Seconda; e ora preoccupata di veder compromesse le sue relazioni con la “Fabbrica del mondo”, sul piano sia degli scambi commerciali che degli investimenti. Può un’Italia ancora forte nella componentistica auto vedere la Via della Seta improvvisamente ostruita da un nuovo Muro? Può l’Italia della transizione digitale assumere un atteggiamento ostile verso il maggior produttore di terre rare del pianeta? Può un Paese a forte vocazione turistica restringere una rotta in grande crescita, a maggior ragione dopo il Covid? Eccetera.

Lo stesso allentamento dei legami fra la Pirelli e il suo azionista di maggioranza relativa Sinochem – attraverso l’esercizio dei golden power da parte del Governo – è risultato alla fine più mediatico che reale. Il Presidente resta cinese; Marco Tronchetti Provera ha assunto personalmente le deleghe di Amministratore delegato; nessuno in Borsa parla più di possibili cessioni forzate di quote cinesi in Pirelli.

Non sembra mancare – nell’ampio dossier italo-cinese – un fattore di complicazione di squisita politica interna. La firma italiana a Belt and Road (poco prima che attraverso la Via della Seta viaggiasse il Covid) è stata posta da un esecutivo che aveva M5S come “senior partner”, appena uscito da una schiacciante vittoria elettorale. Poco dopo – nel “ribaltone” dell’estate 20’19 – lo “junior partner” del Conte-2 è divenuto il Pd: cioè un partito anche più strutturalmente “filocinese”, nel quale militavano – o avevano militato – power-broker italo-cinesi di calibro massimo come gli ex Premier Romano Prodi e Massimo D’Alema. Studiare un what next con Pechino, per la prima Premier italiana espressa dalla destra, sarà tutt’altro che facile anche su questo versante. Ma non senza opportunità.

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