1 agosto 2021, una data che ricorderemo per molto tempo. Nel primo pomeriggio, a distanza di qualche decina di minuti l’uno dall’altro, due atleti italiani hanno conquistato la medaglia d’oro olimpica, nel salto in alto e nei cento metri. E poco prima di loro Sibilio si è qualificato, in maniera inattesa per i 400 metri a ostacoli. Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs hanno coronato imprese spettacolari di cui rivedremo per molti anni le emozionanti immagini e di cui si commenterà presto di tutto e di più. Verranno analizzati i loro percorsi atletici, le tecniche, i tempi di reazione alla partenza e poi le accelerazioni, gli angoli di curvatura, ma probabilmente verranno presto dimenticate alcune loro affermazioni, raccolte dai giornalisti a caldo, con i corpi dei campioni ancora accelerati dallo sforzo fisico compiuto.
Verrà presto dimenticato che Sibilio ha subito detto che ieri sera ha avuto un crollo, ed aveva pensato di non correre, poi però ha parlato con la sua mental coach ed oggi ha gareggiato, ed abbiamo visto come. Sono stati gli stessi telecronisti, mentre ascoltavano l’intervista in diretta, a dibattere se la frase dell’atleta fosse un’enfatizzazione del momento o piuttosto la narrazione oggettiva di un fatto realmente accaduto, come se il caso di Simone Biles non fosse ancora sufficiente a descrivere il peso dei pensieri sulle scelte degli sportivi.
Verrà probabilmente presto dimenticato anche il nome di Nicoletta Romanazzi, la mental coach ringraziata da Jacobs, ancora sul campo, e riconosciuta come aiuto decisivo rispetto al risultato raggiunto. Forse non verranno a lungo ricordate neppure le parole dei commentatori della diretta Rai, i quali osservando come Jacobs fosse oggi irriconoscibile rispetto ad alcuni anni fa, ipotizzavano timidamente la possibile correlazione tra il positivo cambiamento delle performance con una pacificazione del campione, dopo la ripresa dei rapporti con il padre, da cui per molto tempo si era allontanato.
Anche Tamberi, travolto dall’entusiasmo, ai microfoni ha dichiarato che l’oro non è solo suo ma anche degli allenatori e dell’equipe medica che lo segue, mentre continuava a mostrare il gesso che nel 2016 aveva ingabbiato la caviglia, su cui oggi ha invece appoggiato la vittoria. È stato lui a commentare che dopo l’infortunio che gli impedì di partecipare alle Olimpiadi di Rio, per una settimana aveva solo pianto, credendo che fosse tutto finito, poi un giorno qualcosa è cambiato – che cosa se non il pensiero di un futuro atletico ancora possibile? – ed ha concesso alla sua fidanzata di scrivergli sul gesso “Road to Tokyo 2020”, data poi cancellata e sostituita con 2021.
Tre atleti, ma potremmo parlare anche di molti altri e non solo italiani, che hanno saputo subito correlare le proprie vittorie o insuccessi al proprio pensiero ed in particolare al bisogno di prendersene cura. Tre atleti che confermano la possibilità di arrivare, con il corpo, laddove il pensiero li aveva già condotti, superando ostacoli psichici prima che fisici, come accade in realtà ad ogni uomo.
Il giorno in cui impariamo ad andare in bici o a nuotare non è infatti quello in cui per la prima volta saliamo su una bici o entriamo in acqua. Occorre tempo anche per imparare a camminare e a parlare, ed arriva ad un certo punto, non subito quindi, il momento del primo passo, della prima parola. Cosa accade lì? Certamente il corpo, la sua maturazione muscolare e neurologica, hanno un ruolo decisivo ma altrettanto determinante è il ruolo del pensiero, come ci insegnano i bambini che tardano a parlare o camminare.
Poter rappresentare nella mente la possibilità di quel certo moto e poi legittimarsi al raggiungimento della meta, così come permettersi il pensiero del successo sono condizioni necessarie al suo raggiungimento. La memoria personale – mai completamente cancellata, nonostante l’assenza di ricordi consapevoli – del successo un giorno esperito nel camminare, correre, saltare, lanciare, dopo tentativi, cadute ed errori è certo implicata nella sensazione di gioia e nel coinvolgimento che si sperimenta guardando gli atleti gareggiare e vincere.
Eppure non sempre il desiderio di successo incontra percorsi agevoli, anche per chi ne avrebbe le risorse. Al contrario, come stiamo osservando in questi giorni di gare olimpiche, la strada del podio, tanto quanto quella della vita quotidiana, è spesso irta di ostacoli che gli stessi atleti, come tutti, portano nelle loro menti. Annotava Freud, in un suo breve scritto intitolato Delinquenti per senso di colpa, l’esistenza di soggetti che commettono reati (cui seguiranno condanne certe) per poter sanare il bisogno di punizione che si correla ad un sentimento di colpevolezza che non segue, ma precede le loro azioni delittuose.
Analogamente accade che le persone si sottraggono ad opportunità ed occasioni, in modalità che paiono incomprensibili a chi ne sia spettatore, ma che divengono invece chiaramente intellegibili se approfondite analiticamente, e che si scoprono correlate ad attacchi che l’uomo rivolge contro di sé.
Lo sport con i suoi podi, le sue classifiche ed livelli, molto spesso si coniuga perfettamente con una teorizzazione nevrotica, dove il soggetto, disorientato rispetto al proprio valore, attende dall’esterno la valutazione di sé che non sa dare, per concedersi o meno apprezzamento. E questo ovviamente senza che lo sport sia imputabile in sé di psicopatologia.
Gli atleti di queste Olimpiadi lo stanno dicendo in molti modi quanto i loro risultati siano legati, oltreché alla forma fisica, alle condizioni psichiche: angoscia, paura, fino a terrore di non fare abbastanza, piuttosto che, paradossalmente, panico al pensiero di poter raggiungere il podio. Tutti pensieri che appesantiscono il moto degli atleti come quello di tutti gli esseri umani. Tamberi aveva dichiarato nei giorni scorsi che Tokyo era l’appuntamento più importante della sua vita. Mentre gli auguro di averne molti altri ancora, mi servo delle sue parole per osservare che gli appuntamenti riescono quando ci arriviamo preparati, nella disposizione fisica e mentale, come oggi è accaduto a lui.
A voler ascoltare i nostri atleti si potrebbe infine guadagnare da queste Olimpiadi la certezza che i risultati, fuori e dentro il campo, dipendono dai pensieri in gioco.
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