Centinaia di auto hanno sfilato per le strade di Madrid sventolando la bandiera spagnola, per protestare contro il lockdown imposto alla regione autonoma, comprendente la capitale e otto città limitrofe. La manifestazione è stata organizzata dal partito di estrema destra Vox, che ha annunciato di ricorrere alla Corte costituzionale contro lo stato di emergenza, inserendosi nello scontro – già in atto – tra il premier Sanchez e le autorità locali della comunità di Madrid. In Italia non si è arrivati ancora alle manifestazioni di piazza, ma l’opposizione denuncia da tempo che lo stato di emergenza serve al governo Conte per mantenere lo status quo marginalizzando il Parlamento.



Il ricorso agli stati di eccezione contiene sempre dei potenziali pericoli, spiega Agustín José Menéndez, costituzionalista ed esperto di diritto comparato, docente nell’Università Autonoma di Madrid. La situazione spagnola e quella italiana sono diverse, ma si possono individuare elementi comuni. “Il problema più grosso che abbiamo davanti non è la cupidigia di potere del Governo, quanto la sua debolezza strutturale”. Se ne avvantaggerà – per ora – la Commissione europea.



Lo stato di emergenza è questione di rilievo costituzionale molto dibattuta. Cosa prevede la costituzione spagnola?

In sintesi, l’articolo 116 prevede tre diversi strumenti: allerta, eccezione e assedio. Più si limitano i diritti fondamentali, più intenso deve essere il controllo da parte del Parlamento. Che è sempre richiesto. Solo nel primo caso, e solo per i primi quindici giorni, il governo può introdurre misure restrittive dei diritti fondamentali senza un previo voto favorevole dei rappresentanti dei cittadini.

Perché questa scelta?

Le disposizioni sugli “stati eccezionali” nella costituzione spagnola riflettono il vivido ricordo dell’abuso di tali poteri sotto la dittatura franchista e le diverse influenze esercitate sui costituenti, in particolare, dalla costituzione francese e da quella tedesca.



La comunità autonoma di Madrid ha chiesto formalmente al governo di revocare lo stato di emergenza imposto lo scorso 8 ottobre. Che cosa può dirci in proposito?

Il nocciolo del problema è l’elevatissimo livello di contagio raggiunto nella regione di Madrid dalla fine di agosto, che non ha avuto riscontri significativi da parte delle autorità regionali, a differenza di quanto accaduto in altre regioni. Prima c’era una mancanza di addetti al tracciamento, pochissimi e non sempre a tempo pieno. A questo si sono aggiunti, a misura che aumentavano i casi, i ritardi nell’eseguire i test Pcr, e anche nell’avere i risultati, con ricadute immediate.

Può spiegarci la situazione?

Dieci giorni fa si sono superati ampiamente i 500 casi per 100mila abitanti, con tassi troppo alti – vicini al 20% – di positività nei test eseguiti. Si aggiunga che in questi ultimi giorni si sono dimezzati i test eseguiti a Madrid, la densità di popolazione dell’area urbana della capitale e il fatto che la città è un centro di comunicazioni, e si capirà subito perché altre regioni – comprese alcune di quelle governate dal Partito popolare, che guida la regione di Madrid – si sono allarmate e hanno fatto pressioni sul governo centrale perché agisse.

E il governo che cos’ha fatto?

Si è mosso, adottando misure che però la maggior parte degli esperti definisce come troppo blande e tardive. Infatti alla spettacolarità politica, giuridica e costituzionale della dichiarazione dello stato di allerta non corrisponde l’effettiva invasività delle misure.

Dove sta il punto?

Provvedimenti simili sono stati introdotti in fasi precedenti da diversi governi regionali senza la necessità di una dichiarazione formale di allerta. Quella si è resa necessaria a Madrid per il conflitto tra governo regionale e centrale, ed in particolare, per la decisione della Corte superiore di giustizia di Madrid di giovedì scorso, che, fra l’altro, ha considerato che l’entità della limitazione del diritto di libera circolazione richiedeva la dichiarazione formale dello stato d’allerta.

In Italia sono favorevoli allo stato di emergenza il governo e i partiti di governo perché lo ritengono essenziale per adottare provvedimenti di urgenza finalizzati al bene pubblico. A farne le spese sono il Parlamento e i rapporti tra Governo e Parlamento. E in Spagna?

È ovvio che gli stati di eccezione sono dispositivi pericolosi, come mostra la storia costituzionale europea. Ciò non dovrebbe, tuttavia, portare a conclusioni predeterminate senza un’adeguata valutazione delle circostanze fattuali concrete.

Che sono sempre opinabili. Ieri Conte in conferenza stampa ha detto che non c’è altro modo che quello adottato dal governo per salvaguardare la salute.

Ciò che risulta determinante è garantire la trasparenza delle misure e un controllo parlamentare costante. Soprattutto quando i fatti che danno origine all’emergenza rischiano di durare. In ogni caso, relativamente alla Spagna un dibattito e una votazione parlamentare ogni quindici giorni mi sembrano essere un ostacolo serio a qualsiasi deriva autoritaria.

Se le misure da adottare fossero più pesanti?

È prevedibile che si discuterebbe se basta lo stato di allerta o se si dovrebbe dichiarare lo stato di eccezione, più invasivo, ma soggetto a più controlli. Infatti, qualche voce autorevole in questo senso si è già sentita.

Il Italia il Governo Conte è oggetto di critiche non soltanto per il prolungamento dello stato di emergenza, ma anche per il ricorso a uno strumento ritenuto improprio, i Dpcm. Anche in Spagna lo stato di emergenza si presta a questa ambiguità?

Lasciando da parte il giudizio che si può emettere sulle azioni di entrambi i governi, il quadro costituzionale e le circostanze politiche sono in qualche modo differenti. È vero che potrebbero esserci dei pericoli in una regolamentazione dettagliata degli stati eccezionali nella Costituzione e basta ricordare l’articolo 48 della Costituzione di Weimar. Ma in un Parlamento molto frammentato in cui il Governo ha una maggioranza ristretta, come nel caso della Spagna, e in cui l’assemblea è costantemente coinvolta, con la dichiarazione dello stato di allerta il Governo ha più costi che benefici.

Dunque la Spagna non deve temere una concentrazione dei poteri nelle mani dell’Esecutivo.

Azzarderei che il problema più grosso che abbiamo davanti a noi non è la cupidigia di potere da parte del Governo, quanto la sua debolezza strutturale. Non soltanto la situazione sanitaria potrebbe deteriorarsi rapidamente, ma è quasi certo che la situazione economica sarà presto drammatica. Questo spiega la riapertura troppo affrettata del paese alla fine de giugno che, bisogna ricordare, era richiesta anche dall’opposizione, afflitta anch’essa da una enorme debolezza e da una grave confusione.

E per quanto riguarda l’Italia? Rischia di avere un Governo con troppi poteri?

Leggendo i giornali italiani, l’impressione che traggo è, di nuovo, quella di una debolezza crescente. Sia al governo che all’opposizione. Tutto l’imperversare dei dibattiti, sia in Italia che in Spagna, ma in generale in tutta Europa, mi sembra riflettere il decadimento dei partiti politici, e la conseguente mancanza di soggetti capaci di articolare idee e di strutturare una volontà politica comune. Per non parlare della costante carenza di intelligenza politica, ciò che i francesi chiamano l’esprit de finesse.

Le risulta che l’Italia sia l’unico paese nell’Ue ad essere in stato di emergenza? Come lo spiega?

Tralasciando l’allerta limitata a Madrid, c’è la Repubblica Ceca, dove è probabile un secondo lockdown rigoroso nelle prossime settimane, e dove lo stato di emergenza è in corso dal 30 settembre. Dato che la situazione si sta deteriorando ovunque in Europa, più paesi potrebbero ricorrere presto a nuove dichiarazioni di stato di emergenza. Ovviamente, i rischi legati all’uso delle emergenze come scorciatoie non dovrebbero mai essere sottovalutati. La responsabilità è essenziale in democrazia, soprattutto durante le emergenze. Ma questo non implica che sia saggio prendere misure che potrebbero essere popolari nel breve termine ma deleterie nel medio e lungo periodo. Insisto: dopo una estate allegra, la Repubblica Ceca si confronta adesso con un secondo e pesantissimo lockdown.

Che relazione c’è a livello di Unione Europea tra emergenza Covid, strumenti finalizzati ad arginare la crisi come il Next Generation EU e Governi attuatori?

Questa è la domanda da un milione di euro. In queste settimane si stanno imponendo tre fatti. In primo luogo, è probabile che i fondi per il recupero prendano un bel po’ di tempo prima di essere disponibili. Potrebbe essere eccessivamente ottimistico aspettarsi che arrivino anche nell’autunno del 2021. Così l’Ue si dimostra ancora una volta reduce da una “trappola decisionale congiunta”, per citare Fritz Scharpf.

Non ha l’impressione che tale trappola alla fine risulti un’arma in più a disposizione della Commissione, invece di un handicap?

Per definizione, l’incapacità di prendere nuove decisioni avvantaggia quelli che si trovano bene nello status quo. Non credo sia il caso della Commissione, che in ogni caso è debolissima, condizionata com’è dall’equilibrio di forze esistente tra paesi europei e interno a singoli paesi.

Stava spiegando quelli che ritiene alcuni fatti salienti.

In secondo luogo, la prevedibile profondità della crisi – ampliata da questa seconda ondata del coronavirus, e forse ne arriverà una terza – sta rendendo gli importi previsti nel piano troppo esigui, come gli stessi servizi della Commissione avevano già indicato nella loro relazione di maggio. In terzo luogo, sarà richiesta una forte condizionalità economica, che verrà verificata attraverso i meccanismi del semestre europeo.

Qual è il suo timore?

Imporre tale condizionalità a paesi nel profondo di una grave crisi economica e sociale può rivelarsi esplosivo. I tempi sono davvero troppo interessanti.

(Federico Ferraù)