Mercoledì è stata approvata alla Camera una mozione della maggioranza che impegna il Governo “a non approvare il disegno di legge di ratifica del Mes alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo”. Come aveva già spiegato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, quindi, l’intenzione è quella di aspettare la sentenza della Corte Costituzionale tedesca sulla ratifica da parte del Bundestag. La Germania, infatti, è l’unico altro Paese, insieme al nostro, a non avere concluso il processo di ratifica.
Come ci spiega Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, l’attesa per la decisione della Suprema Corte di Karlsruhe non è un espediente per guadagnare tempo, ma “è invece saliente, perché la sentenza potrebbe contenere dei vincoli, anche impliciti, all’approvazione della riforma del Mes da parte della Germania. Occorrerà leggere tra le righe per capire se non vi siano, per esempio, paletti in grado di condizionare l’approvazione da parte del Governo e del Parlamento tedeschi di eventuali successivi programmi di aggiustamento che il Mes dovesse finanziare”.
La Corte potrebbe, quindi, porre condizioni non sulla riforma del Mes in quanto tale, ma sui programmi futuri che dovessero essere approvati e riguardare ovviamente i singoli Paesi.
Esattamente. La sentenza potrebbe porre dei paletti che il Governo e il Parlamento sarebbero poi chiamati a rispettare. Si tratta di uno scenario tutt’altro che accademico, perché la Corte Costituzionale tedesca non è nuova a sconfinamenti nel campo della policy.
Ci sono, quindi, dei precedenti?
Il caso più eclatante è quello relativo a una sentenza sulle politiche monetarie non convenzionali della Bce, nella quale la Corte era intervenuta di fatto nella valutazione di una serie di questioni di policy che alcuni osservatori esterni avevano notato non riguardare strettamente il suo mandato, tracciando quello che era il perimetro all’interno del quale la Bundesbank doveva poi muoversi. Per questo aspettare la sentenza della Suprema Corte di Karlsruhe sul Mes non è un mero espediente, ma un aspetto rilevante: si tratta di conoscere quale sarà il ruolo della Germania nel Mes riformato. Ricordiamo che Berlino ha esercitato un ruolo molto influente nel Mes, non solo e non tanto perché ne è il primo azionista, ma perché tutti i programmi di aggiustamento sono stati oggetto di una discussione in seno al Bundestag che ha in qualche modo contribuito alla politicizzazione di quegli stessi programmi. Detto questo, ci sono almeno un paio di osservazioni da fare.
Prego.
La prima è che il vero problema del Mes non è se l’Italia ratifica la riforma del trattato per ultima. A questo proposito va anche ricordato che il Governo Conte 2 aveva dato via libera alla riforma a inizio 2021, ma non è poi seguito il dibattito parlamentare necessario alla ratifica vera e propria, nemmeno con il successivo Esecutivo guidato da Mario Draghi. Il vero problema è che c’è uno stigma politico estremamente significativo in capo al Mes. Basti pensare che l’ultimo programma che ha finanziato è quello per la Grecia che risale al 2015. Neanche uno shock come quello della pandemia è riuscito a rivitalizzare il Mes, che pure aveva messo a disposizione una linea a tasso quasi zero per le spese sanitarie. Tutti i Paesi più colpiti si sono rifiutati di accedervi dicendo chiaramente che c’era uno stigma politico che non poteva essere ignorato.
Nel 2020 si era parlato della richiesta di accesso da parte di Cipro.
Ci furono delle indiscrezioni di stampa, riportate anche in Italia, secondo cui Cipro stava per richiedere l’accesso al Mes sanitario. Qualche giorno dopo il Governo di Nicosia smentì questa notizia, ma i principali giornali italiani non ne dettero conto. Peraltro, a riprova del fatto che c’è da fare uno sforzo vero di riforma, va evidenziato che ci sono voluti diversi mesi per nominare il nuovo direttore generale, Pierre Gramegna, dopo che era scaduto il mandato di Klaus Regling. Credo, quindi, che i Paesi europei debbano sedersi intorno a un tavolo per trovare una quadra su una riforma sostanziale delle funzioni del Mes. Bisognerebbe cercare di mitigare lo stigma politico che fa sì che nessun Paese voglia accedere ai suoi programmi.
È possibile farlo?
Il Mes in astratto ha una funzione importante, soprattutto in un’unione monetaria che non ha un’unione fiscale, il problema è che fino a oggi non ha fornito i risultati all’altezza delle aspettative. Questo perché c’è stato un eccessivo sbilanciamento sulla condizionalità, che in qualche modo ha contribuito a creare uno stigma con cui oggi il Mes deve fare i conti. Il Fmi negli anni 90, all’indomani della crisi asiatica, si era trovato in una situazione simile. Avviò un ampio dibattito all’interno e all’esterno sulla riforma della condizionalità, volta a renderla più semplice ed efficace, maggiormente concentrata su alcuni aspetti essenziali. Il Mes ha una posizione sulla condizionalità ancora di vecchio stile, superata dalla letteratura e dalla prassi internazionale. La vera riforma del Mes passa per una semplificazione della sua condizionalità, in modo che le sue linee di credito possano essere finalmente utilizzate. Si tratta di rendere il Mes un’istituzione più vicina ai bisogni dei suoi azionisti. C’è poi un’altra osservazione da fare.
Quale?
Ritengo che quest’enfasi che oggi viene posta sul Mes rappresenti un po’ un elemento di distrazione, perché il vero dossier su cui concentrare tutti gli sforzi e le energie è il Pnrr, visto che da lì promanano fondi essenziali per la crescita della nostra economia nei prossimi anni. Purtroppo ora sta emergendo, con la chiarezza che solo i numeri possono dare, che ci sono dei ritardi, in alcuni casi anche significativi, nella sua attuazione. Credo che il dibattito pubblico debba concentrarsi su questo. Altrettanto importante è il dossier relativo alla riforma del Patto di stabilità. Anche qui esistono una serie di criticità che andrebbero dibattute, perché rischiano di mettere l’Italia e altri Paesi potenzialmente vulnerabili in difficoltà.
In che modo va collocato il Mes rispetto al Tpi, il cosiddetto scudo anti-spread della Bce?
Il Tpi è in qualche modo alternativo al Mes: è destinato a Paesi che non presentano particolari fragilità o squilibri macroeconomici e che attraversano un momento di deviazione temporanea dai loro fondamentali. I Paesi con fragilità strutturali che dovessero trovarsi in difficoltà, invece, non potrebbero accedere al Tpi, ma a un programma di aggiustamento del Mes.
In questo senso è quindi importante il nuovo Patto di stabilità: in base a come viene disegnato si può capire se un Paese può avere più facilmente accesso al Tpi o se invece non ha alternativa al Mes…
Sì. Il rispetto della condizionalità fiscale è uno dei requisiti di qualificazione del Tpi. Nella misura in cui questa condizionalità fiscale è soggetta a elevati margini di discrezionalità, in qualche modo si crea un’area grigia che può consentire o meno l’attivazione del programma della Bce. Il problema della riforma del Patto di stabilità così come impostata dalla Commissione europea è che, sebbene ci siano molti aspetti condivisibili, c’è una dimensione di eccessiva discrezionalità in capo alla Commissione medesima, che in qualche modo crea un problema perché la sua valutazione non verrebbe ancorata a principi o criteri chiaramente articolati ed esplicitati ex ante.
(Lorenzo Torrisi)
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