Quello che accade in Italia in queste drammatiche settimane ha qualcosa di irreale e di premonitorio. Il rombo della battaglia tuona a centinaia di chilometri: l’aggressione imperiale e imperialista russa all’Ucraina non solo non si ferma, ma si dilata a macchia d’olio per la torsione mondiale che ormai la battaglia tra le forze capitalistiche internazionali ha assunto.
L’ultimo G7 a Hiroshima ha confermato che – mentre una sorta di centralizzazione finanziaria e industriale instabile e precaria continua a permanere – il rombo delle armi si preannuncia anche nell’Indo-Pacifico, là dove l’Anglosfera prepara la sua capacità d’integrazione subalterna di ciò che rimane del capitalismo europeo, disgregato dalle sanzioni contro la Russia e dall’assorbimento nel dispositivo militare Usa.
È naturale pensare che il problema della crescita continentale europea diventerà essenziale in futuro, per affrontare le due grandi questioni che si porranno appena la centralizzazione capitalistica prevarrà sulla guerra imperialistica tra capitalismi. Bisognerà ricostruire, a partire dall’Iraq, ciò che rimane del Grande Medio Oriente con il suo epicentro in Siria e, a partire dall’Ucraina, ciò che rimarrà della Russia e dell’Ucraina…
Il complesso militar-industriale da solo non potrà dare queste riposte e il Vecchio continente, se vorrà darne una sua, di risposta, dovrà basarsi sulle tecnostrutture dell’Ue. Qui sta il dramma.
Oggi, le regole Ue appaiono con l’angelicale volto della presidente von der Leyen che, giustamente, auspica l’unità nazionale italiana ed europea dinanzi alla tragedia dell’Emilia-Romagna, in cui vibra l’esempio mirabile di solidarietà che ha provocato nei giovani e nelle popolazioni tutte. Ma il problema rimane. Mentre ci si abbraccia solidalmente nel fango, i cantori dell’apocalisse alla Gentiloni e alla Dombrovskis ricantano di nuovo le litanie minacciose alla Moscovici (ricordate il commissario europeo, francese e socialista, che diceva che la politica economica dell’Ue era indipendente dal colore dei Governi e quindi dalla democrazia?). Ebbene, come ieri ha ricordato con la consueta maestria Gustavo Piga su questo libero campo di confronto intellettuale che è Ilsussidiario.net, il problema è quello della politica economica dettata dal Patto di stabilità, che rimane intatto e minaccioso.
Tutto vero: non sappiamo spendere e abbiamo distrutto le strutture con cui si spende (comuni, province, camere di commercio), grazie al liberismo ordito dagli Stati: e qui sta la differenza tra l’ex neo-capitalismo thatcheriano e questo attuale capitalismo lassalliano, ossia ordito dagli Stati che impongono il mercato e il dominio del privato, contro e non con il pubblico. L’impongono con la spada tecnocratica e sfregiano il principio di maggioranza democratica.
Il 2003, anno in cui la Cassa depositi e prestiti divenne una Spa, sarà ricordato negli annali della distruzione di massa della crescita italica dagli storici che verranno (se gli storici ci saranno ancora, visto l’eterno presentismo che ci asfissia).
La cantilena è sempre la stessa: finirla con la spesa corrente e ridurre i deficit, non facendo, invece, quegli investimenti che contano e sono necessari: ossia quelli pubblici che creeranno la sola crescita possibile. Quella non fondata sui sussidi e sui bonus, ma sul lavoro delle imprese: dei lavoratori e degli imprenditori che sono decine e decine di migliaia, ma che sono sempre più soli. E che garantiscono all’Italia di essere ancora un grande Paese industriale, nonostante l’Ue, e no grazie ad essa.
Ma la mazzata – oggi – del rinnovo del Patto di stabilità come se nulla fosse successo – pandemia, guerra imperiale, alluvione disastrosa -, questa coazione a ripetere barbarica e ipocrita, rischia di dare all’Italia e all’Europa, come costrutti culturali e spirituali, un colpo mortale. Nella sordità agli appelli dei forti, che vengono imbavagliati dalle fiere del consenso e dall’ignavia dei potenti.
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