Il nostro “stato di emergenza” sembra destinato a non terminare con la fine del mese di marzo. Si chiude l’emergenza Covid solo per transitare in una nuova emergenza politica ed economica, ma anche morale ed umana. Se dinanzi alle recenti pratiche di confinamento a causa del Covid l’uso del termine “guerra” aveva un senso puramente metaforico, in quanto un divario infinito separava l’imperativo del “partire per il fronte” da quello del “restare sul divano”, oggi questo termine corre seriamente il rischio di non essere più una metafora, ma una realtà tanto tragica quanto insensata.
Infatti, oltre agli scenari di guerra provenienti dall’Ucraina ed alle folle osannanti di Mosca intorno al loro leader, ci sono le onde d’urto provocate dallo shock energetico che producono contraccolpi non indifferenti sull’intera catena produttiva. Troppo ampi sono i margini di imponderabilità, troppo vaste le incertezze per non riconoscere la verità di una “navigazione a vista” alla quale il nostro governo è di fatto obbligato.
Dinanzi al rischio di un simile dissesto, il nostro atteggiamento sembra oscillare tra un tragico realismo ed un ostinato riduzionismo. È diffuso il timore di un disastro più vasto che le nostre autorità cercano comprensibilmente di contenere ed al quale sembra contrapporsi un ottimismo di maniera che si sforza, in tutti i modi, di guardare altrove come se non stesse accadendo nulla.
In realtà è la stessa domanda sul futuro immediato a rivelarsi secondaria in quanto la rivoluzione è già in corso. Non si tratta infatti di rispondere alla domanda su cosa accadrà domani, ma a quella che si interroga sul come vivere oggi.
Qualunque cosa accada, come già ho segnalato a proposito del Covid, un ritorno all’insostenibile superficiale leggerezza della “società signorile di massa”, analizzata da Luca Ricolfi alla vigilia della pandemia, è impensabile oltre che improponibile. Non ci è più possibile convivere con una società in costante decrescita demografica, nella quale la percentuale di quanti non studiano, né lavorano, né seguono un corso di formazione sia il doppio di quella europea, dove giovani e anziani si spostano verso l’estero: i primi per progettare il loro avvenire ed i secondi per vivere una vita meno mesta e con più sicurezze. Ma soprattutto non possiamo più permetterci un’immagine eternamente squalificata del nostro Paese e della nostra storia, che di tutti questi atteggiamenti di sostanziale rinuncia costituisce la premessa culturale.
Mi pare allora opportuno ricordare quanto di buono il Covid ha fatto paradossalmente emergere. In quei mesi si è resa visibile un’Italia inattesa, fatta di medici ospedalieri, personale sanitario e migliaia di volontari, che hanno rivelato una dimensione di eroismo civile ordinario e ci hanno improvvisamente restituito una dignità nazionale della quale non avevamo più memoria.
Si tratta allora di essere consapevoli che, dinanzi a qualsiasi difficoltà economica e tra le pieghe di una società spesso scomposta e superficiale, abbiamo capacità e risorse molto più profonde di quanto non pensiamo.
Dinanzi alle minacce di aumenti drammatici e ai diversi tsunami economici che sembrano prodursi all’orizzonte, non si tratta solamente di occupare una posizione intermedia capace di trattenerci dallo scivolare nell’allarme collettivo, quanto di riscoprire e valorizzare l’energia morale della quale molti tra noi si sono rivelati capaci, indicando a tutti gli altri la strada di una rinnovata dignità civile che non può non tradursi in impegno culturale e professionale al tempo stesso.
Ma non si tratta di una scelta facile. Per troppi decenni ci siamo arresi allo stereotipo di un paese di evasori e corrotti, di superficiali e indifferenti, tollerando non solo che nella rappresentazione che ci siamo fatti del nostro Paese il peggio occupasse la prima fila e quanto c’è di meglio restasse nell’ombra. L’esercizio del doveroso senso critico si è esercitato su di un retroterra culturale troppo fragile per non farci precipitare in uno stato di dimissioni politiche e civili dal quale è difficile uscire.
Ora, dinanzi a nuove minacce, prima ancora di interrogarsi sulla loro probabilità di diventare realtà, ci incombe il dovere di recuperare la consapevolezza della dignità della quale siamo eredi e delle risorse che rendono possibile un tale recupero.
Occorre pertanto un lavoro di riappropriazione culturale del nostro sostrato morale. È necessario che si recuperi una consapevolezza storica e identitaria dalle quali ci siamo troppo allontanati per non rischiare adesso la partenza dal Paese delle sue maestranze migliori. A quest’opera, anche se con responsabilità diverse, siamo tutti chiamati in causa. Un paese che non ha la minima stima di sé non ha nessun Recovery fund che possa preservarlo dalla sua inevitabile decadenza.
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