La Francia è senza Governo da 40 giorni, sbuffano ormai tutti i media transalpini, a destra come a sinistra. In realtà, a Parigi regna un caotico vuoto istituzionale da ben 11 settimane: da quando il Presidente Macron – battuto al voto europeo – ha sciolto l’Assemblea nazionale con arbitrio autoritario. Chiamando elezioni anticipate da cui è uscito nuovamente battuto. Il suo “campo presidenziale” – relegato il 9 giugno al terzo posto dopo il Rassemblement National e e il campo di sinistra – ha limitato i danni al secondo turno delle legislative solo grazie a patti di desistenza con sinistre e gollisti in nome della “resistenza repubblicana” contro Marine Le Pen. Lo spregiudicato “chiarimento politico” sollecitato dal Presidente ha comunque spazzato via 70 suoi deputati e ne ha decretato la fine di un primato elettorale già faticoso alle presidenziali di 2017 e 2022.



È già un mese che il Nuovo Fronte Popolare – primo partito nella nuova Assemblea – ha indicato Lucie Castets come candidata Premier. Ma Macron aveva altro da fare: correre da una cerimonia all’altra delle Olimpiadi parigine e quindi starsene in vacanza in Costa Azzurra. Venerdì ha finalmente ricevuto all’Eliseo la delegazione NFP guidata da Castets: ma già da settimane filtrava sui media la sua contrarietà pregiudiziale ad affidare l’incarico alla tecnocrate. Un no tanto personale quanto insindacabile, che non lascia il minimo spazio ad alcuna verifica politica parlamentare sull’esistenza o meno di una maggioranza a sostegno della candidata di sinistra (Macron è ovviamente terrorizzato dalla possibile convergenza contro di lui delle estreme, sul modello della passata maggioranza Lega-M5S in Italia).



La Costituzione semipresidenzialista varata nel 1958 dal generale de Gaulle attribuisce all’Eliseo il potere assoluto di indicare il Premier. Ma nell’interesse del Paese, non in quello politico o personale del Presidente. De Gaulle si dimise quando perse la fiducia elettorale dei francesi. Per questo Oltralpe il dibattito è sempre più acceso. E gli estremisti de La France Insoumise hanno già minacciato di impeachment un Presidente che veste contemporaneamente i panni del giocatore (perdente) e dell’arbitro non imparziale, pronto anzi a stravolgere le regole in corsa.

Macron sta infatti lasciando volutamente in carica il governo di Gabriel Attal che lui stesso ha sfiduciato chiamando elezioni anticipate e che il voto ha privato di ogni legittimazione democratica. È questo gabinetto che sta preparando la manovra 2025, particolarmente delicata dopo che l’Ue ha inserito la Francia fra i Paesi sotto procedura d’infrazione per deficit elevato. E il progetto di bilancio rischia di essere sottoposto al voto parlamentare in una situazione che i costituzionalisti francesi giudicano illegale: i ministri dimissionari – nella prassi manipolativa introdotta in corsa dall’Eliseo – potranno infatti votare per schemi legislativi preparati da loro medesimi. Macron, intanto, ha forzato lui – assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, lui pure pericolante dopo l’eurovoto – la conferma di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue e di Thierry Breton come Commissario francese.



In Italia – Paese premuto da Macron fuori dalla stanza dei bottoni Ue – la situazione è sulla carta molto diversa: la maggioranza di centrodestra ha visto confermati dall’eurovoto i risultati delle elezioni politiche del 2022. Eppure una crisi di governo è virtualmente aperta: almeno sui media.

Un pretesto è stato costruito ad hoc su una questione quanto meno laterale nell’agenda politica corrente, come lo ius scholae. Ma è su questo tema – un classico “diritto” caro del centrosinistra, tipicamente lontano da ogni emergenza socioeconomica del Paese – che Forza Italia ha voluto tenere alta dentro la maggioranza una tensione che poteva essere episodica: quella creata dal voto di fiducia degli eurodeputati di FI (Ppe) a von der Leyen. Il Governo Meloni si è invece astenuto in Consiglio Ue, mentre FdI (Ecr) e Lega (ID) hanno negato la fiducia in europarlamento: entrambe le posizioni hanno espresso dissenso – anche – verso i diktat di Macron.

La questione, in sé, non sarebbe priva di qualche rilievo sostanziale. Alla base del programma von der Leyen votato da FI vi sono intenti che l’Italia del centrodestra non ha mai condiviso (primo fra tutti la conferma delle transizione verde pesante sostenuta fin qui dall’Europa, peraltro sconfessata dalle urne). Oppure – come ha ruvidamente ricordato venerdì a Rimini il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – appaiono sempre più problematiche le derive “sovietiche” nello sviluppo del Recovery Plan e dei Pnrr nazionali.

La polemica filo-Ue di FI – non meno che la sua improvvisa conversione alle istanze del centrosinistra – sembra avere però origini completamente diverse, non politiche. Esse vanno ricercate in alcune recenti uscite pubbliche di Marina e Piersilvio Berlusconi: che non hanno mai fatto mistero di considerare la rappresentanza parlamentare di FI una proprietà privata personale, ricevuta in eredità dal padre, scomparso un anno fa.

Il Cavaliere stesso – per oltre trent’anni – ha largamente modulato il suo impegno politico a difesa delle sue attività imprenditoriali nel settore dei media, per impedire ogni modifica della regolamentazione che continua a chiudere il mercato della tv commerciale in Italia a un duopolio dominante fra la tv di Stato e Mediaset. È ora evidente come la scomparsa di Silvio Berlusconi abbia aperto scenari fino a un anno fa “vietati”: tanto che già in sede di preparazione della manovra 2024 vi erano state avvisaglie sull’intenzione della Premier di avviare un cambiamento della legge Mammì/Gentiloni/Gasparri. Il dossier resta aperto – anche attorno alle vicende Rai – sempre sul filo di un conflitto d’interesse irrisolto fra famiglia Berlusconi, Mediaset e FI, laddove è comunque l’Ue stessa a chiedere all’Italia “riforme”, anche contro rischi crescenti di concentrazione dei mezzi d’informazione.

È comunque più che comprensibile come la preoccupazione degli Eredi Berlusconi si scarichi subito sul FI, considerata alla stregua di una controllata Fininvest. Forse lo è sempre stata: ma il leader – oltreché finanziatore – di quel partito era un parlamentare eletto (morto da Senatore in carica), tre volte Premier. E l’attuale delegazione parlamentare di FI è stata eletta lui ancora vivo, leader e candidato. Oggi invece un gruppo di parlamentari democraticamente eletti da 2,3 milioni di italiani pare muoversi – alla luce del sole – sui desiderata di due privati cittadini esercenti un’attività regolata e vigilata dallo Stato. Due tycoon mai eletti e mai candidati, a differenza del padre o di un Donald Trump. E se la holding di famiglia ha ancora sede in Italia, la capogruppo industriale è stata trasferita in Olanda. E se Mediaset è stata oggetto di attacco da parte delle francese Vivendi – ed è stata sostanzialmente posta sotto la protezione dai poteri pubblici -, Mfe è una multinazionale con una propria strategia di espansione “media-politica”: anzitutto in Germania, comunque nel raggio d’azione dell’Antitrust Ue.

Mentre decine di costituzionalisti “democratici” sono impegnati quotidianamente contro il progetto di premierato (tacendo però sempre sulle degenerazioni macroniane), nessuno sembra voler riservare qualche attenzione a un caso palese – almeno sostanziale – di una crisi aggravata della democrazia rappresentativa, annodata attorno a un trentennale conflitto d’interesse e a una legislazione sui media tenuta artificialmente in vita su un terreno di legalità costituzionale sempre più dubbia.

Se in ogni caso l’impasse nel centrodestra dovesse evolvere in una crisi di governo vera e propria – con il possibile passaggio di FI a un “fronte repubblicano italiano” di stampo macroniano – sarà interessante osservare i commenti dei “democratici” su un ennesimo ribaltone estivo pilotato a Roma dall’Europa. Magari dopo consultazioni fra il Quirinale e l’Eliseo, legati da tre anni da un singolare “Trattato di amicizia”, promosso dal Governo Gentiloni, sviluppato dal Conte 2 e formalizzato da Mario Draghi.

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