L’Italia vuole uscire dal memorandum di intesa sulla Via della Seta firmato nel 2019 dal Governo Conte e il ministro degli Esteri Tajani vola a Pechino per iniziare l’operazione di sganciamento dai cinesi, cercando di non urtare troppo la loro suscettibilità.

L’uscita dall’accordo, spiega Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, ce la chiedono gli americani, anche perché è un’intesa in cui è coinvolta anche la Russia. E soprattutto è un accordo politico, che comprende la divulgazione in Italia di contenuti graditi alla Cina. Si va verso una ridefinizione dei rapporti Italia-Cina in termini solo commerciali. Anche se Confindustria teme ritorsioni nei confronti delle aziende italiane.



Pechino, però, sa che l’interscambio con l’Italia è tutto a suo favore: noi importiamo molti più prodotti di quanti ne esportiamo. Le eventuali ritorsioni dovrebbero essere limitate.

Come stanno cambiando i rapporti tra Italia e Cina e perché Tajani si è recato a Pechino?

Il problema dell’Italia è come sganciarsi dalla Via della Seta senza irritare i cinesi. E mi sembra che l’orientamento del Governo sia di uscirne. Per due ragioni: la prima perché lo chiedono gli Usa, la seconda è che la Via della Seta è sempre più collegata alla Russia: a Pechino ci sarà un’assemblea con Putin. E quindi per un Governo che è schierato in modo fermo e convinto contro Mosca partecipare diventa sempre di più un’anomalia. C’è, quindi, la volontà di uscire dall’accordo firmato da Conte che fa dell’Italia l’unico Paese avanzato agganciato alla Belt and Road, ma ci sono anche forti pressioni, di Confindustria in particolare, perché questo non avvenga: si temono punizioni dei cinesi nei confronti delle aziende italiane. Nell’esecutivo il partito più sensibile a Confindustria è Forza Italia. Tutte queste manovre che cominciano con una visita di Tajani e potrebbero continuare con una visita di Giorgia Meloni, mirano a trovare la quadra sulla questione: come uscire dalla Via della Seta senza antagonizzare in modo eccessivo i cinesi.



Cosa ci dobbiamo aspettare allora?

Mi sembra che la soluzione che si va delineando sia di uscire dalla Via della Seta, che è un accordo anche politico, sostituendolo con un accordo puramente commerciale. Stiamo parlando di come evitare un danno possibile alle aziende italiane sotto forma di ritorsioni cinesi. Continuare con la Via della Seta non dà particolari vantaggi. L’ambasciatore cinese dice che le esportazioni italiane sono cresciute, ma in realtà sono cresciute anche quelle dalla Francia e della Germania che della Via della Seta non fanno parte.

Nell’incontro a Pechino si è detto che il memorandum non ha dato i risultati sperati, tuttavia il ministro del Commercio cinese ha parlato di export italiano in crescita. Dov’è la verità?



Il ministro cinese citava il dato delle esportazioni italiane in crescita verso la Cina, ma è anche vero che la bilancia commerciale con la Cina è peggiorata: le importazioni italiane sono cresciute di più delle esportazioni. La verità vera è che tutto questo con la Via della Seta c’entra ben poco, perché il nostro trend è simile a quello di altri Paesi europei avanzati che non fanno parte della Via della Seta.

Cosa non va negli accordi della Belt and Road?

Una serie di clausole che sono politiche: l’impegno a diffondere tramite la Rai un certo numero di documentari cinesi, a diffondere attraverso le agenzie giornalistiche a partecipazione statale un certo numero di comunicati stampa cinesi, ma anche a sviluppare la cooperazione universitaria, che avviene anche in modo inquietante. Questo mese alla Sapienza avremo un convegno sui diritti umani in Cina che non è quello che sembra: normalmente si direbbe che Pechino li vìola, ma qui il convegno viene fatto con due enti dell’ambasciata cinese che ci diranno che in Cina tutto va per il meglio. Tra l’altro parliamo di una facoltà in cui è preside Oliviero Diliberto, ex Rifondazione, persona vicina alla Cina. Ci racconteranno la teoria, che è quella di cinesi, russi e sauditi, dei diritti umani differenziati: in altri termini, quelli che vanno bene per l’Occidente non sono gli stessi che si adattano a culture diverse.

Il partenariato strategico Italia-Cina di cui parla Tajani, invece, che cosa significa?

Credo che l’obiettivo, e quello che gli altri partner europei e gli Usa chiedono, sia un partenariato di tipo esclusivamente commerciale. Non sappiamo cosa ci sia dietro l’accordo firmato da Conte. Tra l’altro quelli erano i tempi in cui Grillo dormiva nell’ambasciata cinese a Roma. Ma i nostri alleati ci chiedono di uscire da queste clausole di tipo politico. Non di rinunciare ai rapporti commerciali. La quadratura del cerchio che Tajani sta cercando è di sostituire la Via della Seta con il partenariato strategico, qualcosa di simile a quello che ha la Germania con la Cina, che riguardi esclusivamente rapporti commerciali. Collaborare in settori come l’informazione e la cultura significa diventare vettori di propaganda cinese in Europa.

Si è parlato anche dell’Italia come facilitatore nei rapporti tra Cina e Ue. In che cosa consiste? Pechino si aspetta questo da noi?

Credo che questi siano tentativi di indorare la pillola per uscire dalla Via della Seta, che personalmente auspico, perché, ripeto, ha clausole politiche. Non so se la pressione delle industrie farà deragliare quello che però mi sembra da parte del Governo un piano di uscita già delineato. Si sente anche dire che l’uscita dalla Via della Seta per abbracciare il partenariato strategico dovrebbe avere un passaggio parlamentare. Non è obbligatorio perché il memorandum of understanding non era stato suggellato dal Parlamento, ma consentirebbe alla Meloni di dire a Xi Jinping che siamo una democrazia parlamentare e se il Parlamento decide di non rinnovare l’accordo il Governo non può controllarlo.

Ma i cinesi alla fine come reagiranno alla nostra rinuncia alla Via della Seta: si arrabbieranno, ce la faranno pagare?

I cinesi considerano l’uscita del Paese economicamente più importante tra le dozzine nell’elenco della Belt and Road una loro sconfitta. Qualche ritorsione ci sarà, ma di breve durata perché sanno che si è prodotto un sistema commerciale che va a loro vantaggio. E mantenerlo è nel loro interesse. Se reagissero in maniera forte mettendo dazi sui prodotti italiani anche noi lo faremmo sui prodotti cinesi. Ma la bilancia è tutta a loro favore, per Pechino sarebbe come spararsi nelle gambe. Le minacce di ritorsione sono un tipico metodo cinese. Ma poi si comporteranno diversamente. Se ci sono un paio di aziende che ritengono non strategiche o la cui presenza in Cina considerano non vantaggiosa faranno qualche danno. Non farà piacere a queste aziende, però i cinesi sanno che il rapporto commerciale con l’Italia va tutto a loro vantaggio.

Visto che usciamo dall’accordo per volontà degli Stati Uniti potremmo chiedere almeno qualcosa in cambio per questo?

Quella che Giorgia Meloni vuole avere, soprattutto da un presidente democratico Usa, è la legittimazione come leader democratica, in un mondo di lingua inglese dove, quando è arrivata, aveva tutte le copertine dedicate al fascismo in Italia. Quello che voleva lo ha già avuto. Persino da Nancy Pelosi: nell’intervista rilasciata al Corriere diceva che la Meloni è una sincera democratica, anche se sui gay ha altre posizioni e deve impegnarsi di più sui diritti.

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