Le visite ufficiali di Giorgia Meloni prima in Libia e poi in Etiopia sono importanti in vista di una ripresa della presenza italiana in Africa, dato che questi Paesi, con Somalia ed Eritrea, erano parte dell’impero coloniale italiano. In Libia siamo stati praticamente estromessi dai nostri “alleati” Nato; nel Corno d’Africa sono molto attivi cinesi, russi e turchi, ma legami storici e culturali con l’Italia, in positivo e in negativo, sono ancora consistenti.



La visita lo scorso gennaio in Libia di Giorgia Meloni e del ministro degli Esteri Tajani ha dato inizio a questo nuovo e, speriamo, più fattivo approccio al continente africano. In quell’occasione è stato firmato un accordo del valore di 8 miliardi di euro tra Eni e Noc, l’azienda petrolifera libica. Un accordo soggetto a rischi, data la critica situazione interna della Libia, ma che evidenzia ancora una volta l’importanza non solo economica bensì geopolitica dell’Eni.



Durante la visita si è parlato anche del problema del controllo dei flussi migratori, particolarmente rilevante nel caso della Libia, e questo argomento è riemerso anche nei colloqui con il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, e con il presidente della Somalia, Hassan Sheikh Mohamud. Il peso maggiore è stato dato, tuttavia, al cosiddetto Piano Mattei, di cui non si conosce ancora molto e che dovrebbe essere presentato ufficialmente il prossimo ottobre.

Il riferimento a Enrico Mattei sembrerebbe porre in primo piano il problema degli idrocarburi, essendo stato Mattei autore della costruzione dell’Eni, con una strategia che lo portò a inimicarsi le “Sette sorelle”, le multinazionali che dominavano il mercato degli idrocarburi. Particolarmente dirompente fu la decisione di riconoscere ai Paesi produttori il 75% delle royalty, invece dell’usuale 50%. Malgrado ripetute inchieste, anche giudiziarie, non sono mai state chiarite del tutto le cause dell’incidente aereo in cui trovò la morte nell’ottobre del 1962 e rimane aperta l’ipotesi di un sabotaggio dell’aereo.



Accanto alle sue strategie sugli idrocarburi, la motivazione sarebbe da ricercare anche nella sua visione di una politica italiana più indipendente dall’alleanza atlantica. Una posizione ritenuta particolarmente pericolosa durante la Guerra fredda, né è forse da trascurare il fatto che la morte di Mattei sia avvenuta in concomitanza con la crisi dei missili sovietici a Cuba, un evento che portò sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Desta, quindi, qualche perplessità il riferimento a Mattei di Giorgia Meloni, che si è contraddistinta per una posizione che potrebbe definirsi “iperatlantista”, per esempio sulla guerra in Ucraina.

Lo scenario del Corno d’Africa non è di certo meno caotico di quello libico, a partire dall’Etiopia. Qui lo scorso novembre si è raggiunto un accordo tra il Tigray e il governo federale che ha posto fine a una sanguinosa guerra iniziata nel 2020. Questo accordo sembra reggere, ma intanto sono sorti altri conflitti con il governo federale, per esempio nella regione dell’Amara. In Tigray, anche dopo l’accordo, rimangono i militari eritrei che hanno appoggiato i federali nella guerra contro i tigrini. Il presidente eritreo, Isaias Afwerki, accusa infatti il governo di Addis Abeba di essersi sottoposto ai diktat di Washington. Afwerki governa l’Eritrea dal 1993 con un regime dittatoriale e può rappresentare un ostacolo a un definitivo accordo di pace tra Tigray e Addis Abeba. Forse per queste ragioni non è stato invitato agli incontri con la Meloni.

Anche la Somalia è in una situazione critica, da 17 anni sotto attacco degli islamisti di al-Shabaab, che ha portato nel 2007 all’intervento armato dell’Unione Africana con l’appoggio dell’Onu e degli Stati Uniti. Gli islamisti si sono dovuti ritirare da buona parte del Paese, compresa la capitale Mogadiscio, ma sono ancora molto attivi. Inoltre, l’introduzione di un sistema federale trova molte difficoltà in un Paese basato sulla divisione in clan. Permane poi il contrasto con il Somaliland (già Somalia britannica), che vorrebbe essere riconosciuto come Stato indipendente e che, a sua volta, ha un conflitto territoriale in corso con il Puntland, regione autonoma della Somalia.

Tornando all’Etiopia, vi è un altro contrasto in corso che interessa l’Italia: quello tra Addis Abeba e il Cairo. L’Etiopia ha iniziato nel 2011 la costruzione di una diga sul Nilo Blu, che dovrebbe essere completata nel giro di un paio d’anni e che potrebbe raddoppiare la produzione di elettricità del Paese. Un’operazione molto importante per l’Etiopia, ma fortemente criticata dal Sudan e soprattutto dall’Egitto, per il timore che la diga (conosciuta con l’acronimo GERD: Grand Ethiopian Renaissance Dam) riduca pesantemente la fornitura d’acqua nei loro territori. L’attuale conflitto in Sudan non facilita il raggiungimento di un accordo per gestire la questione così da equilibrare le diverse esigenze.

L’interesse italiano parte dal rilevante coinvolgimento nella costruzione della diga dell’italiana Webuild (ex Salini) e, a livello più generale, dall’interesse a non rendere troppo difficili i rapporti con l’Egitto. Si pensi solo al ruolo dell’Eni presente in questo Paese dal 1954 e attualmente il maggior produttore di idrocarburi in Egitto.

Insomma, un notevole ginepraio in cui sembra difficile che l’Italia possa agire efficacemente da sola, tanto più con una sostanziale assenza dell’Unione Europea e in presenza di molti aggressivi attori: Cina, Russia, Turchia. Anche gli Stati Uniti sono in via di rientro e forse questa volta collaboreranno a un “Piano Mattei”.

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