Giuseppe De Rita ha compiuto novant’anni e un gruppo di vecchi amici si appresta a celebrarne la passione per lo sviluppo sociale. Ed è stato lo stesso De Rita a sintetizzare il senso di una vita e di una generazione, così dicendo: “In fondo, senza alcun proclama, dagli anni 70 in poi, abbiamo, noi novantenni e noi ottantenni – tra i quali, facendomi più vecchio ma non più saggio di quanto io non sia, mi include – abbiamo di fatto costituito una dignitosa classe dirigente dello sviluppo italiano. …ciascuno di noi fece le sue scelte professionali e solo dopo fece in orizzontale legame con gli altri.
Nessuno si è sentito più bravo e potente degli altri (forse anche per una generalizzata modestia personale), ma abbiamo via via intessuto una implicita classe dirigente operante in orizzontale, costruita sul primato della stima professionale, poi della cordialità e dell’amicizia. Noi ottantenni usciremo uno alla volta dalla scena, con le diversità delle diverse collocazioni formali; ma lasceremo un’impronta comune, di fiducia in dinamiche culturali tutte orizzontali, mai dando spazio ad una voglia di verticalizzazione del potere.
Una filosofia di presenza che spesso appare fragile, ed in effetti ho sempre pensato che alcune forti ventate di opinionismo politico (dal ’68 a Tangentopoli, dal berlusconismo al populismo) siano state anche un rabbioso sussulto contro la cultura tecnico-politica di cui è stata portatrice la tribù degli ottantenni che mi accingo a lasciare. Una tribù che credo trasmetta in eredità una semplice regola: credere nel lavoro sodo e nella società in cui ci è dato vivere”.
È questo il punto sociologicamente e storiograficamente significativo: che una generazione fatta di percorsi individuali diversissimi (Theodor Geiger giungeva addirittura a contestare il concetto stesso di generazione) sia riuscita a costituire addirittura una sorta di configurazione simbolica in opposizione a cui si sono via via levate quelle intermittenti e sempre più forti ondate di risentimento antitecnologico e anti-elitista che caratterizzano in forme particolarissime la società italiana. Ne trasformano la stessa politica con sempre più incisiva frequenza, di fatto creando un bradisismo che corrode qualsivoglia stratificazione culturale che aspiri a costituirsi in politica come professione e che nel contempo sia – questo è il punto – legittimata dalla maggioranza dei cittadini.
Ortega y Gasset aveva già tutto compreso dinanzi al crollo della Spagna imperiale parlando di “dominio dei peggiori” e del ritrarsi dei “migliori” dall’agone politico. Di qui il rifugio di taluni degli evocati da De Rita, pur con profonde differenze ineludibili, nel silenzio, oppure nella partecipazione politica nicodemistica, oppure, ancora, nella libido del potere per il potere personale (per interposti figuranti), che altro non sono che varianti di quel ritrarsi dalla politica democratica di cui parla De Rita.
Le parole di un Maestro vanno sempre meditate. Questa volta, pensate, sembra proprio che anche il tempo per la meditazione sia troppo breve dinanzi alla frana sociale, politica e culturale che si è prodotta nella nostra amata Italia e a cui non abbiamo saputo opporci.
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