Che ormai non si tratti di un tiepido e lontano vento di guerra, ma di una fredda tramontana a noi sempre più minacciosamente vicina, lo testimonia la straordinarietà (anche storica) del giudizio aperto alla Corte penale internazionale, innanzi alla quale la Federazione Russa dovrà rispondere del grave “crimine di genocidio”, e dove è stata già adottata l’ordinanza cautelare del 16 marzo 2022, “vincolante ai sensi del diritto internazionale”, che obbliga la Russia a “sospendere immediatamente l’operazione militare”.
Ai timori bellici e processuali si uniscono anche quelli ambientali, che hanno spinto il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) a recarsi, d’emergenza, presso le maggiori centrali nucleari ucraine, mentre si sta rivalutando la possibilità d’introdurre una particolare forma di no-fly zone limitata allo spazio aereo soprastante i siti nucleari – specie a seguito degli eventi che stanno riguardando la centrale di Zaporizhzhya, già dichiarata territorio russo e già interessata da forti esplosioni, secondo le più recenti dichiarazioni dell’ente di gestione Energoatom.
Un profilo di estrema delicatezza riguarda, sotto un diverso ma altrettanto scosceso versante, il coinvolgimento dell’Italia (al pari degli altri Paesi alleati) nell’emergenza bellica ucraina, coinvolgimento cui il nostro Governo ha fatto fronte, in tutta la sua complessità, con due principali interventi, che sollevano, se ben letti, un timore, poi non così infondato, che lo scenario bellico possa riguardarci più da vicino di quanto si possa credere, come paventa il provvedimento del 9 marzo 2022 dell’Ufficio generale del capo di stato maggiore dell’esercito italiano, con il quale sono stati attivati, “con effetto immediato”, “i massimi livelli di efficienza di tutti i mezzi cingolati, gli elicotteri (con focus sulle piattaforme dotate di sistemi di autodifesa) e i sistemi d’arma dell’artiglieria”.
Mi sembra utile, per tentar di leggere le direzioni che il Governo italiano sta percorrendo, prendere le mosse dalle dichiarazioni di Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza comune dell’Unione Europea. Borrell ha ritenuto, nell’audizione straordinaria del Parlamento europeo, che l’obiettivo della Federazione Russa sarebbe volto alla ricostruzione di una grande Unione Sovietica, prospettandosi uno scenario di guerra via via in espansione, e che potrebbe estendersi fino agli ex satelliti di Mosca e giungere nel cuore dell’Unione Europea; come sembra emergere, da un lato, dalle esercitazioni militari bielorusse, iniziate il 16 marzo 2022, e dall’altro dalle informazioni che stanno trapelando dal Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa.
È alla luce di questa paventata quanto inimmaginabile escalation del conflitto che si devono leggere gli interventi normativi italiani.
L’Italia ha risposto immediatamente all’emergenza con due decreti legge, atti che, ai sensi dell’art. 77 della nostra Costituzione, hanno un vero “valore di legge”, e sono legittimi solo in casi “straordinari” di “necessità” ed “urgenza”, soggetti ad una conversione con legge entro sessanta giorni. Dalla lettura dei due decreti legge si comprende come il Governo italiano si stia muovendo su due linee direttive.
La prima consiste nel rafforzamento della presenza italiana in ambito Nato, “per l’impiego della forza ad elevata prontezza”. Questa fornitura viene espressamente in soccorso alla preoccupazione di Borrell, per scongiurare un “cammino militare” sovietico nell’Eurozona, o – in senso ancora più ampio – oltre i confini Nato (abbiamo, d’altra parte, già vissuto con apprensione la caduta di un drone militare nel territorio croato).
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea (e alla quale non è stata ancora offerta una risposta adeguata) riguarda la possibilità che siano i Paesi alleati – con proprio personale – a “fare la prima mossa” nel conflitto bellico: potrebbe questa forma di conflitto assumere i tratti di una “guerra difensiva”, stante l’assenza di un attacco diretto della Russia ai Paesi Nato?
È vero che la nostra Costituzione, nella solenne previsione dell’art. 11, ha ripudiato la guerra come strumento di offesa ai popoli, ma ciò non vuol dire che essa rinunci, in via assoluta e totalitaria, a questo strumento (ricollegandomi, da ultimo, alle riflessioni svolte dal professor Massimo Villone su un editoriale apparso di recente su Il Fatto Quotidiano). Si ritiene che la nostra Costituzione non abdichi alla guerra difensiva (una forma di guerra simile a quella in cui è impegnata la stessa Ucraina), tuttavia un primo attacco della Nato, non potendosi qualificare come “difesa”, non potrebbe rientrare, contrariamente a quanti molti stanno sostenendo, all’interno di questa nozione.
Ed allora, il quesito va riadattato: esiste una diversa declinazione di conflitto?
Anche in questo caso, il diritto può (e deve, a mio modo di vedere), al pari della scienza politica, venire in soccorso: si potrebbe richiamare una particolare forma di conflitto, nota, nel diritto internazionale, come “guerra preventiva”, unico strumento nelle mani della Nato, se – fallite tutte le auspicabili vie diplomatiche – il conflitto degeneri, ed i confini europei necessitassero di imminente tutela, anche prima di un formale attacco russo.
Sembra, allora, proprio nel timore di una simile escalation del conflitto, che si possa spiegare il perché del massiccio rafforzamento degli armamenti Nato.
Ma quando si può ricorrere ad una “guerra preventiva” ed è essa giuridicamente possibile?
Sul primo quesito, vorrei richiamare Sabino Cassese. L’eminente costituzionalista ritiene che si possa ricorrere a questa speciale forma di guerra quando si abbia motivo di temere “un’aggressione armata imminente”; mentre per Vincenzo Arangio Ruiz quando l’attacco avversario sia da considerarsi “ragionevolmente temuto”.
Autorevoli costituzionalisti sono anche giunti ad individuare, in questo strumento, una consuetudine di diritto internazionale, volta “al rispetto del nucleo fondamentale dei diritti umani”: insomma, una sorta di “valvola di sicurezza” per fare fronte a gravi minacce, non altrimenti scongiurabili.
Una strada, sì davvero estrema, ma percorribile a tutela dei nostri valori primari, che d’altra parte l’Occidente ha sempre difeso fin dalla concessione della Magna Charta Libertatum (lasciamo ora da parte ogni rilievo sui più o meno innocenti tentativi occidentali di esportare – oltre i suoi confini, e spesso sotto false bandiere – la rule of law, lo stato di diritto, la democrazia, valori occidentali che sono stati troppo spesso spacciati come assoluti anche in quelle parti del mondo estranee al corso degli eventi storici che hanno forgiato la storia dell’Occidente, il nostro modo di concepire i diritti, senza che ciò solo voglia dire che questi valori siano, in termini assoluti, i migliori per tutte le culture).
Al secondo quesito bisogna dare una risposta affermativa: la copertura giuridica a questa particolare forma di guerra è data dal Rapporto delle Nazioni Unite del 1° dicembre 2004, che legittima la cosiddetta “anticipatory self defense”.
Il rafforzamento dell’Italia nel settore Nato è, così, una delle due strade tracciate dal Governo italiano, con un atto, il decreto legge, cui si è fatto già ricorso, negli anni passati, per situazioni simili, come nelle operazioni belliche del Kuwait, del Kosovo e, nel 2001, dell’Afghanistan.
La seconda strada – ed è quella che sotto un profilo giuridico e sociale ha destato e desta maggiore preoccupazione – riguarda la fornitura diretta alle autorità governative ucraine di materiale bellico: un vero momento di svolta rispetto a quanto è sempre avvenuto nel passato, dove i rafforzamenti erano dispiegati in solo favore della Nato, che fungeva (e dovrebbe fungere tuttora) come un punto di raccordo tra il coinvolgimento dei Paesi alleati e l’azione bellica, escludendo un coinvolgimento diretto dei singoli Stati.
La fornitura diretta ha subìto a sua volta, nel limitatissimo arco temporale di tre giorni, una rapida escalation: con il primo decreto legge il Governo italiano ha previsto la fornitura solo di equipaggiamento diretto “non letale” divenuto, con il secondo, equipaggiamento “militare”.
Da giurista mi sovvengono due quesiti, che, probabilmente, si stanno diffondendo con sempre maggiore velocità nelle abitazioni italiane e nel dibattito pubblico: con questa fornitura, l’Italia quale parte assume nel conflitto? E poi è autorizzato il Governo ad assumere una simile decisione?
La risposta ai due quesiti passa, a mio avviso, dal mutato significato di “guerra”: come visto, il conflitto bellico non è più solo “offensivo”, ma involge molteplici sfumature (“difensivo”, “preventivo”, ecc.). La nozione di “guerra” diviene, così, suscettibile di più declinazioni, interpretazione, questa, confermata dalla Corte internazionale di giustizia nello storico caso “Nicaragua contro Stati Uniti”, con cui si è definita “guerra” qualunque “atto”, fondato sull’uso di violenza, “anche in forme diverse”.
Mi pare che si possa allora ritenere che la partecipazione attiva ad un conflitto può avvenire anche con la fornitura diretta di equipaggiamento militare letale, e cioè di strumenti che importano l’uso della forza o della minaccia, sebbene per finalità difensive, preventive, ecc.
I costituzionalisti sono soliti riferirsi a questo coinvolgimento anche con l’espressione di “guerra in autotutela collettiva”, che altro non è se non la risposta in soccorso ad uno Stato, ingiustamente o meno aggredito, che abbia richiesto l’aiuto militare (in senso lato del termine) di altro Stato, secondo una limpida definizione che ho ritrovato negli Studi in Onore di Giorgio Balladore, editi nel 1978, ad opera di un giovane Sabino Cassese con lo scritto “Wars forbidden and wars allowed by the Italian Constitution”.
Ma si può “decretare” una partecipazione “attiva” al conflitto bellico (con fornitura di equipaggiamento letale) attraverso un ordinario decreto legge, e cioè un atto emanato dal Governo senza previa “legittimazione” parlamentare? Il ruolo del Parlamento è, anzi, risultato particolarmente “compresso” dallo stesso decreto legge, che lo ha limitato ad una funzione di mera approvazione delle liste di materiale bellico, redatte dai ministri competenti.
In che misura questo modo di procedere è compatibile (se lo è) con la nostra Costituzione?
Nell’ultimo biennio, a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19, abbiamo assistito ad una particolare, sebbene giustificata, compressione di diritti fondamentali ad opera di atti governativi e spesso secondari (decreti legge emergenziali, delibere governative, decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ecc.). Tale possibilità, sebbene oggetto di forti critiche, era (ed io così la giustificai su un editoriale apparso sulla rivista Giustizia civile, diretta dal prof. Giuseppe Conte) legittimata dall’assenza, nel nostro ordinamento, di una disciplina emergenziale sanitaria: in quel caso si sono adeguati al bisogno gli strumenti a nostra disposizione, e il decreto legge e i decreti del presidente del Consiglio dei ministri sono apparsi quelli più flessibili e di rapida emanazione.
Ben diversa è la situazione, però, con riguardo all’evento bellico, perché la nostra Costituzione ha stabilito un’apposita procedura legale all’art. 78, e che necessita (non può, deve) di attivazione ogniqualvolta l’Italia prenda parte (diretta o indiretta) ad un conflitto, in favore di un Paese belligerante, senza transitare per il circuito Nato.
Vorrei ricordare, in questo senso, la posizione di un eminente costituzionalista italiano, Federico Sorrentino, che, nel suo saggio Riflessioni su guerra e pace tra diritto internazionale e diritto interno individuava la procedura dell’art. 78 della Costituzione come l’unica percorribile, ordinaria nella sua straordinarietà.
Questa procedura, mi rendo conto, incute un certo timore lessicale (si parla, infatti, di uno “stato di guerra”), ma, sotto una diversa prospettiva, non si può che ammirare la pregevolezza del meccanismo di garanzia accolto dal nostro Costituente.
La disposizione prevede che, laddove l’Italia si trovi in uno stato di belligeranza (e in esso rientra la fornitura diretta di equipaggiamento militare), sia necessaria una deliberazione dello “stato di guerra”.
Il che non vuol dire, si badi bene, “dichiarare” guerra (questa è diversa ed autonoma procedura contemplata da dall’art. 87 comma 9 della Costituzione, di spettanza del presidente della Repubblica).
Cosa importa, allora, deliberare lo stato di guerra ed in cosa consiste?
Diversamente a quanto può pensare, la deliberazione consiste nella presa di consapevolezza, da parte delle Camere, di una situazione conflittuale, conferendo al Governo i “poteri necessari” per far fronte alla crisi esterna che vede, in qualche modo, coinvolta la Repubblica.
Questi poteri sono conferiti dalle Camere con una legge parlamentare (una cosiddetta fonte formale), che sola attribuisce al Governo la capacità di adottare decreti legge, in materia bellica (cioè dal contenuto analogo a quello già previsto).
Nel potere esercitato dal Governo pare, dunque, essere saltato questo meccanismo di garanzia, e cioè l’attribuzione espressa del potere da parte del Parlamento.
Al di là dei timori lessicali, la procedura prevista dalla Costituzione è estremamente garantista, prevedendo che sì il Governo possa operare come oggi sta operando, ma che siano state, in un momento antecedente, le Camere (e cioè gli organi che rappresentano i cittadini) a conferire il potere.
Di certo, tutti noi attendiamo l’immediata cessazione del conflitto (nonostante dai negoziati giornalieri emergano notizie spesso incerte), aspettiamo il “tiepido vento di pace”, ma non possiamo, per ciò solo, abdicare alle sfide che la storia ci presenta: proprio i giuristi sono chiamati (con i loro “occhiali”, avrebbe scritto Arturo Carlo Jemolo) a guardare dove non vorremmo vedere, affinché non si ripetano errori passati e, laddove ciò avvenga, sia assicurata (e assicurabile) l’intangibilità di quei diritti costituzionali primari e insopprimibili – che – come ha osservato il professor Giuseppe Marazzita (nel suo fortunato saggio “L’emergenza costituzionale”), dovrebbero essere sempre garantiti, anche durante un conflitto militare (il che sembra stridere con gli odiosi attacchi che l’esercito russo sta perpetrando sugli obiettivi civili, da ultimo al teatro di Mariupol, il 16 marzo).
Quanto detto riveste estrema importanza, facendoci comprendere la garanzia che la nostra Costituzione vuole garantire con l’art. 78: nella non auspicabile estensione di un conflitto, a livello europeo, noi cittadini dovremmo esser pronti (ed il Governo già titolato) a sopportare misure che in questi anni abbiamo già tristemente conosciuto e a cui ci siamo, altrettanto tristemente, abituati (mi riferisco ai “coprifuoco”, ai lockdown, alle limitazioni della libertà personale, ecc.).
Ad oggi siamo di fronte ad uno Stato, ma in verità ad un presidente, imprevedibile, le cui scelte (ma qui mi rimetto alle osservazioni svolte da eminenti psicologi in questo periodo) non sembrano predeterminabili e, anzi, sembrano muoversi, come una palla pazza, in direzioni contrarie.
Proprio per questo motivo, a garanzia dei nostri più intimi diritti, lo Stato italiano dovrebbe farsi trovare pronto, non potendo giustificare il suo attuale operato sullo stato di emergenza nazionale deliberato dal Consiglio dei ministri e adottato in forza del Codice della Protezione civile, che legittima l’uso di poteri speciali solo con riferimento all’assistenza umanitaria dei cittadini ucraini sul territorio italiano.
Non si può pensare che il Governo, in una rapida precipitazione del già instabile quadro geopolitico, possa intervenire d’urgenza senza che siano le Camere ad avergli conferito i poteri necessari, sia per adoperare la forza sul fronte esterno, procedendo alla difesa dell’autonomia territoriale (europea, nazionale, locale, ecc.), sia per intervenire sul fronte interno, introducendo limitazioni dei diritti fondamentali, a tutela della sicurezza pubblica. In tal caso, l’adozione di un decreto del residente del Consiglio dei ministri, come avvenuto durante l’emergenza sanitaria, non sarebbe sufficiente senza l’attivazione della procedura costituzionale, esponendo, peraltro, lo stesso Governo ad una delegittimazione sociale e ad una perdita di autorità altrimenti evitabile.
Tutto ciò sembra potersi garantire solo percorrendo la strada legale che la nostra Costituzione offre a garanzia dei diritti individuali e a “copertura” di una guerra difensiva, manifestandosi, per questa via, quella strettissima corrispondenza, che innerva l’intera Costituzione, tra la forma e la sostanza, in un sistema dove forma è sostanza.
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