Tutti noi, per quanto ci sforziamo di essere assolutamente realisti, talvolta ci imbattiamo in una realtà che lo è ancora più di noi. Certi di vivere in una società abitata da decenni da un irreversibile processo di razionalizzazione, siamo convinti che la saggezza sia definitivamente insediata nelle stanze del potere. Riteniamo quindi che la politica, prima ancora di essere il regno delle declamazioni, sia il luogo dell’analisi delle conseguenze e la sua virtù capitale sia la phronesis, cioè la prudenza. Non è così.
Di più: abituati a vivere dentro un sistema efficace di protezione sociale, abbiamo tutti conservato fiducia nelle capacità di uscir fuori da quel ristagno problematico dell’economia e del mercato del lavoro che, da vent’anni, ci ha fatto diventare il fanalino di coda dell’Europa.
Per di più gli italiani non sono certo rimasti con le mani in mano. Le famiglie, vera e propria spina dorsale del sistema Italia, si sono mobilitate da oltre quindici anni per difendere gli standard di vita raggiunti e, soprattutto, per poterli conservare per i loro figli.
Così, quando il sistema si è rivelato più ingessato di quanto non apparisse, bloccato tra la logica del sospetto delle istituzioni e quella dell’indignazione degli ambientalisti, l’una e gli altri orientati a bloccare tutto o quasi, abbiamo ancora sperato che tecnici di valore e sensibilità di partito, mossi dall’intelligenza o almeno dagli interessi elettorali, fossero in grado di sbloccare il Paese che ha costruito il nuovo Ponte Morandi, quello delle “mille Italie” che funzionano e che tutti ci invidiano.
Con colpevole indifferenza abbiamo sottostimato i segnali di pericolo che da più parti si stavano manifestando. Che stesse emergendo un’Italia asfittica, dove la metà dei diplomati non si iscrive più in università (ed è una percentuale inferiore a quella del 1961, quando c’era la tanto deprecata università d’élite), il numero delle nascite è sceso oramai a livelli tali da prefigurare un inverno demografico e nella sanità regna un debito sconcertante, nonostante la lezione degli oltre 300 medici morti di Covid perché sprovvisti delle attrezzature di protezione, costituiscono notizie che abbiamo scelto di non commentare più di tanto.
Guidati dal nostro incessante ottimismo abbiamo continuato a pensare che le energie dell’umano potessero, ancora una volta, aver ragione di questi segnali e riuscire, seppur lentamente, a rovesciare questa tendenza.
In questo quadro, sentire parlare di sanzioni e di guerra dà la sensazione di stare ascoltando le notizie di un altro Paese che certamente non può essere l’Italia; oppure di essere stati catapultati in un’altra epoca: quella della seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, accanto ai nostri padri (o ai nostri nonni).
Tanto più che questo stesso parlare di sanzioni e di guerra è accompagnato da uno stupidario che non avrebbe diritto d’accesso neppure in un buon esame di maturità. Lo stesso paragone tra Putin e Hitler è sconcertante per banalità ed è inquietante la leggerezza con la quale viene evocato. Tra Zelensky che parla di olocausto, Biden che parla di genocidio e Lavrov di antisemitismo degli ebrei, si ha la sensazione netta di linguaggi da propaganda, più che di discorsi ufficiali.
Se accogliere il popolo ucraino è un dovere morale, aiutarlo a colpire le navi e i generali dell’esercito avversario fornendogli armi, ma soprattutto competenze e supporto logistico, non vuol dire più difenderlo, ma sostenerlo nella lotta contro il nemico e rinsaldarne la decisione di andare avanti fino alla vittoria. Ciò significa – lo si voglia o no – condividerne la scelta ed esporsi a tutte le ritorsioni che la controparte può predisporre, come di fatto sta già accadendo. Perché nessuno lo ha detto finora a chiare lettere?
Questo non può non comportare un brusco punto di arresto per un’economia già in crisi e, lo si voglia o no, una nuova nottata per la quale molti nostri amici americani ed europei non esitano a dire, con una leggerezza che sconcerta, che durerà anni. Un vero e proprio Vietnam nel cuore dell’Europa.
La nostra nazione, reduce da un passato oramai lontano di crescita e di serenità, incappata negli ultimi vent’anni in un ristagno endemico che l’ha separata da tutti gli altri Paesi europei, è definitivamente disabilitata a sopportare sacrifici di qualsiasi genere, specialmente quando provengono da una decisione politica – quella di entrare in guerra o comunque di avvicinarcisi a passi decisi, non si sa quanto pienamente consapevoli, quando potremmo semplicemente chiamarci fuori appellandoci ai nostri principi costituzionali, se ancora è vero che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11).
Affrontare una simile congiuntura quando, da almeno vent’anni, si è dinanzi ad un ristagno ed un’incapacità di crescita croniche vuol dire essere semplicemente irresponsabili, qualunque sia la posta in gioco ed i valori in discussione. Gli italiani stanno attendendo di risalire la china e non di entrare in una depressione ancora più profonda, dove è l’impensabile ad avanzare a grandi passi.
Qualsiasi governo non può sentirsi abilitato a far precipitare il Paese in una “avventura senza ritorno” – come ci insegnava San Giovanni Paolo II – qualunque possano esserne le ragioni geo-politiche che vi sono dietro. Se questa guerra non è affatto casuale e ci sono, accanto all’incoscienza di alcuni, le irresponsabilità di molti, non siamo affatto tenuti a pagarne i costi vivendola come un destino. Non possiamo non chiamarci fuori, fin d’ora.
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