“Voglia di fare e di ripartire in fretta” ha detto Draghi nel suo messaggio istituzionale rivolto al premier del governo transitorio libico Abdulhamid Dbeibah, al termine della sua prima visita ufficiale all’estero da quando si è insediato a Palazzo Chigi. Draghi può giocare in Libia una partita nuova. “La Libia è forse oggi uno dei pochi dossier esteri in cui i nostri interessi nazionali sono ancora cospicui e differenti rispetto a quelli degli altri Stati”, spiega al Sussidiario Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia. Interessi che vanno protetti. Significa che non possiamo aspettarci troppo dagli Usa e soprattutto dall’Europa. Per questo le scelte dell’Italia vanno calibrate con prudenza e non possono ridursi ai contratti economici, pur importanti, che sono stati stipulati con le autorità – provvisorie, non va dimenticato – dell’incerto contesto libico. Secondo Quercia occorre ridefinire bene l’accordo quadro del 2008, aiutando la ricostruzione dell’ossatura statale libica e il consolidamento della sicurezza del paese. In questo l’Italia è interlocutore privilegiato: “i nostri interessi sono consolidati e di lungo periodo, per cui non abbiamo bisogno di sfasciare il Paese per tutelarli”.



Draghi ha scelto la Libia come prima visita ufficiale all’estero. È la scelta giusta?

È un scelta coraggiosa. La Libia è in una fase importante di transizione e l’Italia deve riequilibrare la sua presenza dopo alcune incertezze del passato. La Libia è forse oggi uno dei pochi dossier esteri in cui i nostri interessi nazionali sono ancora cospicui e differenti rispetto a quelli degli altri Stati. Possiamo esercitare una nostra influenza a beneficio di molti. Sopratutto dei libici. 



Prendiamo le dichiarazioni dei due premier. Draghi: “si vuole fare di questa partnership una guida per il futuro nella piena sovranità della Libia”. Obiettivo giusto? Anche possibile?

La sovranità della Libia è la parola chiave. Pochi attori ritengono che sia possibile tenere il Paese unito e sovrano senza ingerenze esterne. Le stesse fazioni libiche si combattono senza riguardo per la sovranità del Paese. In questo quadro, attori meno schierati come l’Italia, vicini obbligati che non possono permettersi uno Stato fallito davanti alle nostre coste sono il miglior partner possibile.



Saremmo l’honest broker?

Sì. I nostri interessi sono consolidati e di lungo periodo, per cui non abbiamo bisogno di sfasciare il Paese per tutelarli. Però serve tanto realismo, umiltà e professionalità. E sopratutto voglia di sporcarsi le mani in un contesto difficile e precario. 

In che modo possiamo tornare centrali?

Rimettendo al centro del rapporto la storia, la geografia, l’archeologia, il mare con tutte le sue inesplorate ma infinite possibilità di crescita e di sviluppo. E sopratutto ricordandoci, quando andiamo a Bruxelles, che siamo l’unico Paese europeo veramente mediterraneo. Senza l’Italia il Mediterraneo non sarebbe quel piccolo mare, quel lago tra tre continenti.

Però le ambizioni costano.

Costano e noi non siamo nella nostra forma migliore. Per questo è importante determinare bene il centro di gravità del nostro intervento in Libia e concentrare su pochi e realistici obiettivi i nostri sforzi e le nostre risorse.

In concreto: l’Italia può o dovrebbe avere una presenza militare più significativa?

Occorrerà guardare con attenzione gli sviluppi e soprattutto cercare di capire come i libici intenderanno richiedere la cooperazione degli stranieri nel consolidamento della sicurezza del Paese e nella demilitarizzazione delle tante milizie.

Quali spazi potrebbero aprirsi?

Potrebbe forse aprirsi un ruolo per le Nazioni Unite, che mano a mano che avanza il processo politico potrebbero essere chiamate ad una missione militare per garantire la sicurezza in quelle aree che oggi sono tenute da milizie e forze paramilitari straniere. Una missione che includa la demilitarizzazione e la security sector reform a cui l’Italia potrebbe collaborare tra i principali contributori.

Piena sovranità della Libia “anche in campo migratorio. Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi”. Una dichiarazione quella di Draghi che ha suscitato forte disappunto a sinistra. “Evidentemente gli sfugge la differenza tra salvataggio e cattura” ha detto Fratoianni. E Boldrini: “Grave che Draghi abbia ignorato le violenze e le torture, subite dai migranti nei campi di detenzione, denunciate dall’Onu”. Che cosa significano queste reazioni?

Forse sono reazioni che mancano di comprendere la complessità della Libia, la difficoltà del lavoro da fare ed il ruolo dell’Italia. Il primo ministro Draghi ha fatto bene a riconoscere il ruolo della guardia costiera libica, anche perché l’abbiamo ricostruita noi. Forse ha complessivamente mancato di dare sufficiente attenzione al fattore umanitario, ma non ci si poteva aspettare molto di più in questa prima missione. È concettualmente sbagliato mettere la sicurezza umana contro la sicurezza dei confini e i diritti umani non si tutelano smantellando la minuscola guardia costiera libica.

Ma cosa dire dei terribili episodi di violenza contro i migranti illegali che provengono dall’Africa sub-sahariana?

Avvengono proprio perché lo Stato libico non controlla a sufficienza il territorio, e sopratutto non controlla i confini meridionali ed il territorio del Sud. E subisce la forza economica dei trafficanti di uomini che finanziano le milizie. L’industria della violazione dei diritti dell’uomo e la schiavizzazione dei migranti si interrompe in primo luogo bloccando le rotte che li portano dentro la Libia già come merce umana. Chi ha a cuore i diritti umani dovrebbe forse guardare un po di più quello che accade nei confini in entrata e non solo quelli in uscita.

“La sovranità della Libia prima di tutto” ha detto Dbeibah. Eppure Turchia, Egitto, Russia, Qatar, Emirati continuano a giocare la loro partita. Sono presenti militarmente sul terreno con i contractors. Che cosa ci si può realisticamente aspettare?

Che i Paesi che sono entrati nella fase militare del conflitto non saranno facilmente estromessi dalla Libia, anzi ora avanzeranno le loro agende politiche ed economiche. E la sovranità della Libia potrebbe finire intrappolata in una via senza uscita se non si includono questi attori nel processo politico.

Come giudica la piena apertura libica alla partnership con l’Italia per quanto riguarda l’energia (Eni) i voli (Aeneas ed Evav), i contratti sanitari, i cantieri dell’autostrada litoranea?

Da guardare con interesse ma con prudenza. Ora i libici cercano di fare accordi con tutti, per ottenere vantaggi economici ed in termini di investimenti. Devono comprare la stabilità facendo arrivare alle tante fazioni e milizie vantaggi economici o di altra natura immediati.

A proposito dei dossier economici i giornali italiani hanno trasmesso un messaggio improntato al “finalmente si ricomincia”, ovvero l’Italia adesso può tornare a giocare il suo ruolo. Davvero possiamo recuperare il tempo perduto?

Dobbiamo tenere presente che il governo in carica è provvisorio. Deve preparare le elezioni di dicembre e poi in teoria farsi da parte. Con chi devono essere fatti gli accordi di lungo periodo non è ancora chiaro. Per quanto riguarda l’Italia, poi, dobbiamo riportare gli impegni alla cornice complessiva del 2008, ossia all’accordo politico-strategico quadro. Che va comunque rivisto ed aggiornato alle mutate circostanze.

Cosa può o dovrebbe fare Draghi da questo punto di vista?

Evitare di finire sotto ricatto, migratorio, energetico o altro, ricordando che i nostri legami con la Libia possono essere utilizzati anche per controllare o influenzare l’Italia. Non dobbiamo restare schiacciati tra il gioco dei russi e dei turchi, visto che la natura di questo rapporto ed i suoi confini non sono chiari.

È l’unico fronte?

No. Dobbiamo anche stare attenti a coordinare l’impegno che diamo ai francesi in Africa sub-sahariana con le nostre azioni in Libia. Sono due teatri contigui, ma gli interessi con Parigi sono differenti in un teatro e nell’altro. E poi non aspettarci troppo dagli Usa e sopratutto dall’Europa. La Libia resta un partita prevalentemente nazionale e regionale, fuori dal quadro europeo ed atlantico.

Dbeibah ha detto che occorre “riattivare l’accordo (Italia-Libia) firmato nel 2008”. La firma era quella di Berlusconi. Nella generica memoria corta che caratterizza questi tempi, sembra che le relazioni italo-libiche abbiano il loro unico antecedente in quell’accordo. Ma è davvero così?

Ovviamente non è l’accordo di Berlusconi, anche se a lui va riconosciuto di averlo perfezionato e concluso, a modo suo. E questo gli è stato fatto pagare. È però un accordo molto antico, che precede anche gli interventi di Prodi del 2003 quando era presidente della Commissione europea e l’accordo di Dini del 1998 quando era ministro degli Esteri.

A quando risale?

Il vero architetto del partenariato strategico Italia-Libia fu Giulio Andreotti, che lo tessé a lungo durante la guerra fredda, negli anni Ottanta, quando Gheddafi era ancora nel mirino dei caccia americani. E riuscì a farglielo sottoscrivere nel 1991, il primo accordo mai firmato dal leader libico con un leader occidentale.

Un bel salto nel passato.

Archeologia della prima repubblica. Ma con diverse lezioni da imparare, sopratutto in politica estera.

(Federico Ferraù) 

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